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La lezione immortale di Eriksson: il rifiuto del calcio come calvario, l’unica cosa che conta è il divertimento (Guardian)

Il Guardian contro “la rabbia” del Telegraph conservatore: “Quanto era allegra la sua nazionale, ancora oggi ci insegna a vivere”

La lezione immortale di Eriksson: il rifiuto del calcio come calvario, l’unica cosa che conta è il divertimento (Guardian)
Ex-England Swedish football manager Sven-Goran Eriksson (2ndL) sits at the table of honour at the 25th Sports Gala 2024 held at Friends Arena in Stockholm, Sweden, on January 22, 2024. (Photo by Claudio BRESCIANI / various sources / AFP) / Sweden OUT

In Inghilterra hanno fatto un dramma della nuova maglia della nazionale, col sacrilegio della croce in rielaborata in viola dalla Nike. E le tradizioni, e i simboli, e la storia.. e tutte quelle cose pesantissime da ultraconservatori riassunte benissimo da questo pezzo del Telegraph. E invece, scrive Jonathan Liew sul Guardian, “si tratta di un polverone, una lezione oggettiva su come i media di destra possano fondamentalmente evocare un vortice di rabbia febbrile dal nulla”. Il Guardian cita direttamente il conservatore Telegraph, è una tradizione anche questa: “qualche accigliato factotum del Daily Telegraph che all’improvviso sembra preoccuparsi moltissimo di preservare Plantagenet”.

“Chiaramente questa roba funziona, almeno sul giusto tipo di target. Perché là fuori in prima linea, ai confini di filo spinato di Questa Inghilterra, sembra davvero esserci un pozzo senza fondo di infelicità: un sacco di uomini tristi e spaventati (per lo più maschi) il cui senso di sé e di sicurezza è così fragile che anche le più piccole microaggressioni possono scuoterlo fino alle ossa. Una croce viola. Un volantino del consiglio tradotto in bengalese. I giovani che si divertono. E così la nazionale diventa naturalmente una sorta di ultimo castello, un punto di raccolta per la rabbia nazionalista di tutte le sfumature, una campana di vetro piena interamente di urla dei Tory”.

Ma il punto di Liew è un altro: la lezione di Sven-Göran Eriksson. La felicità d’un uomo di 76 anni malato di cancro, terminale, nell’allenare per una volta il suo amato Liverpool. Liew ricorda quanto era scanzonata la sua nazionale. Andrebbero, scrive, “rivalutate le vibrazioni. Perché penso che ciò che viene in gran parte dimenticato dell’Inghilterra di Sven è l’ondata di edonismo e di speranza che ha generato nei suoi momenti più sfrenati, l’inimmaginabile entusiasmo di calciatori brillanti sul punto di fare cose brillanti. Battere la Germania 5-1 fuori casa . David Beckham contro la Grecia. L’Argentina nel 2002. Wayne Rooney nel 2004. Il pareggio di Frank Lampard ai supplementari contro il Portogallo. Joe Cole da 40 yard contro la Svezia nel 2006. L’Inghilterra di Eriksson può essere a corto di risultati misurabili, ma può essere insuperabile come generatrice di grandi momenti”.

“E al suo centro, forse l’allenatore inglese più apostata e controculturale di tutti. Eriksson ha colto istintivamente quello che Fabio Capello e Roy Hodgson e Graham Taylor e Glenn Hoddle non facevano, quello che facevano Terry Venables e quello a cui Gareth Southgate era abituato: che questa cosa doveva essere divertente. Nonostante tutta la rabbia e le sciocchezze che vorticavano intorno a lui, nonostante tutte le imperdonabili intrusioni nella sua vita privata da parte della stampa scandalistica, Eriksson non ha mai dimenticato che riuscire ad allenare alcuni dei migliori calciatori del mondo nei tornei internazionali è – in realtà – una cosa bella. Spesso il suo comportamento calmo veniva riconsiderato come un tradimento, un’assenza di autentica passione inglese. Invece, col senno di poi, sembra una sorta di rifiuto: un rifiuto della rabbia gratuita, un rifiuto di vedere questo lavoro come un calvario o un compito ingrato o un calice avvelenato, un rifiuto di smettere di divertirsi”.

“Forse, nei suoi ultimi giorni, Sven ha ancora qualcosa da insegnare a tutti noi. Non soccombiamo alla rabbia meschina. Non sprechiamo il tempo che conta per cose che non contano. Non fissiamoci su come finiscono le cose, per non dimenticare come ci hanno fatto sentire mentre le facevamo”.

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