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Napoli è a disagio nella vittoria, vincere qui è sempre anticamera della nostalgia

Il sorriso di Barella al gol è Kronos che schiaffeggia la città. È il tempo che passa, va accettato. Basta che non lo si impieghi a coltivare nostalgia

Napoli è a disagio nella vittoria, vincere qui è sempre anticamera della nostalgia
Ci Napoli 03/12/2023 - campionato di calcio serie A / Napoli-Inter / foto Carmelo Imbesi/Image Sport nella foto: gol Nicolo' Barella

Napoli è a disagio nella vittoria, vincere qui è sempre anticamera della nostalgia

Sul finire del primo tempo di Napoli-Inter, Walter Mazzarri cede alla tentazione di liberarsi per qualche minuto della giacca che – e lo conferma la piazza – l’ha sempre fatto sentire incartato. Domenica sera gli azzurri vanno sotto e lui, quello delle prime notti di Champions e d’amore (per chi scrive), dopo dieci anni era lì, di nuovo, senza giacca, a tentare di fare una guerra già persa a priori: in quanto il vero e solo, e invincibile, nemico dell’esistenza è il tempo che, domenica, sfoggiava le sue ingiurie. Ma non importa perché, come dieci anni fa, chi guida la squadra comunica di essersi tolto i guanti. Tuttavia, sotto, c’era un maglione attillato a sostituire la camicia, oggi inappropriata, in quanto la giovinezza è perduta per sempre. In tutta l’esteriorità – e quindi superficialità – di questo dettaglio, ho avuto il sentore che ci fosse la possibilità, uno spiraglio, per approfondire. Mi sono chiesto, allora, volgendo lo sguardo sul futuro e sul passato: e se il problema di Napoli, del Napoli, fosse proprio il tempo? Quest’ultimo l’ho visto proprio lì, in campo, nel sorriso di Barella al goal del raddoppio nerazzurro.

Non era l’atleta a sfilare sotto gli occhi della curva inerme, bensì Kronos che schiaffeggiava una città che proprio non vuol saperne, si vergogna, di realizzarsi vincitrice. Per quanto grande e millenaria sia la storia di Napoli, l’impressione è che il vincere sia ragione di crisi, catastrofe, anticamera delle forche caudine dei rimpianti. Al contrario, nella sconfitta, nell’umiliazione, nell’imbarazzo confusionario metà colto e metà folkloristico, lì sembra ci troviamo meglio: bramosi di esser stati, ma sempre troppo sterili per cominciare a divenire. Nel terreno appena descritto, limbo del potenziale mai espresso, Napoli sembra riuscire ad abitare, a resistere, a reagire. Sotto pressione elabora e si rialza, poi ricade. Vincere, nel mezzogiorno d’Italia, è motivo di rimozione, nevrosi, senso di colpa: psicodramma. Anche questa, credo, sia una risposta al perché domenica tanta era la differenza tra noi e l’Internazionale di Milano.

Una domanda insignificante: ma perché, dalla scorsa estate, tutti sembrano pretendere, più che un Napoli vittorioso, un Napoli “come quello di Spalletti”? Che non sia proprio nell’adulazione del passato da cui non ci si riesce a staccare, la madornale differenza tra noi e quelli che vincono? Loro, al di là di fisiologiche crisi periodiche, sembrano sempre riuscire a fare i conti con la morte di Dio. Mi spiego meglio, a Madrid e Barcellona, tanto per dirne due, nessun tifoso né giornalista o opinionista si straccerebbe mai le vesti – come facciamo qui – per la fine di un ciclo, per l’addio di un campione, per la scomparsa di un proprio simbolo. Al di là dell’aspetto economico, la cultura della vittoria (che si conquista e non si può comperare), è un valore che ha – come unico paradigma – la trasvalutazione di ogni valore prima esistente. Solo in questo modo, esclusivamente non rimpiangendo il tempo che fu, si ha la forza, il coraggio, di reinventarsi e, di conseguenza, costruirsi e narrarsi come soggetto vincitore.

Vincente per mentalità, non occasionalmente, non per il miracolo di qualche Dio sceso in Terra e neppure per grazia divina. Guardiamoci da fuori, chi siamo? Esempio: cosa scoprono, e vedono, di noi, i talenti che giocano e hanno giocato per la maglia azzurra? Cosa scoprono come prima cosa se non che, per quanti goal e per quanto giganti possano essere i loro contribuiti alla vittoria di un nuovo scudetto, mai nulla li renderà degni di divenire Dei – per questa città – non al posto, ma accanto, alla divinità per eccellenza che è Diego Armando Maradona? È ovviamente una semplificazione che, però, vuole porre un problema: è opportuno immaginare di fare, oppure no, un lavoro che permetta alla piazza di emanciparsi culturalmente, così di smetterla di sentirsi perdente anche quando vince? Sarebbe già un passo avanti narrarsi senza l’assillo di citare la nostra nemica Juventus. Sarebbe già un risultato divenire noi stessi, le bestie nere, i nemici per eccellenza, di qualcuno. Prima, però, bisognerebbe crescere e, magari, si può cominciare proprio dallo smettere di parlare con la nostalgia del “Napoli Campione”, sennò si è trattato del contentino del destino. Un colpo di fortuna, come per Fantozzi quando si è visto accettare dalla signorina Silvani l’invito a cena.

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