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«Un tempo ogni ciclista aveva la sua sella: Coppi portava la sua in giro per il mondo in valigia»

Il Giornale intervista Giuseppe Bigolin, presidente di Selle Italia: «Mio padre era mugnaio, eravamo 13 figli. Ci ha insegnato a fare fatica. E rispettarla»

«Un tempo ogni ciclista aveva la sua sella: Coppi portava la sua in giro per il mondo in valigia»

Su Il Giornale una bella intervista a Giuseppe Bigolin, 82 anni, alpino della Brigata Cadore, tra i primi volontari nella

tragedia del Vajont. E’ il presidente di Selle Italia, uno dei grandi marchi del ciclismo italiano e non solo italiano. Una storia che per lui arriva quasi per caso.

«Io avevo iniziato a lavorare nel campo dei filati e dell’abbigliamento. Già arrivavano le prime commesse importanti
quando un giorno, mio fratello Riccardo, arriva si siede a tavola mi dice: “Bepi ascolta, ho trovato una cosa che potrebbe fare al caso tuo. Ho rilevato un marchio che si chiama Sella Italia e potresti lavorarci tu…”».

La sua è una storia lunga, dice Bigolin, che comincia da suo padre.

«Sì, faceva il mugnaio e in casa eravamo in tredici figli, otto maschi e cinque femmine. Quando i contadini ci incontravano o andavamo alla macina ci confondevano; “ma qual figlio seo ti…”. Io ho avuto la fortuna di studiare e mi sono diplomato come perito industriale. Ma in casa mia ci è stato sempre insegnato a far fatica e a rispettare la fatica…»

Così le ha insegnato?

«Non era uno che faceva tante prediche. E non servivano perché io l’ho sempre visto lavorare e ho imparato cosa significa. Ci ripeteva sempre che la fatica assidua e operosa vince ogni cosa e con noi era bastone e carota anche se credo d’aver preso più bastonate che carote. E allora non c’erano gli psicologi…»

Cosa le ha lasciato?

«Quando se ne è andato nel testamento ha lasciato scritto: “Caro Bepi ti lascio…”».

Basta?

«Basta».

Quando il fratello chiese a Bigolin di pensare a rilevare Sella Italia lui lo fece. E accettò.

«Nel 1967 prendo Sella Italia in società con mio fratello: soci al 50 per cento. Facevamo trenta selle da corsa al giorno sagomate con le pompe ad acqua. L’azienda in pratica eravamo noi due. Lavoravano giorno e notte, sabato, domenica, Pasqua e Natale… Finché, quando decisi di sposarmi, mio fratello mi regalò la sua quota come dono di nozze: il 25 per cento a me e il 25 per cento a mia moglie».

E da lì è andato in fuga…

«Il ciclismo in quegli anni cominciava ad evolversi. Una crescita sportiva ma anche tecnica e per le selle la svolta fu passare dal cuoio ai materiali più moderni come la plastica. Fu una vera e propria rivoluzione per chi le produceva ma anche per i campioni. Le selle in cuoio avevano una lavorazione diversa e più complessa e poi andavano trattate per dare la forma: ogni ciclista aveva la sua. Pensi che Fausto Coppi le selle con cui gareggiava se le portava in
giro per il mondo in valigia».

C’era concorrenza? Bigolin risponde:

«Sul mercato c’erano colossi che sembravano piranha e io avevo terrore di fare la fine del pesciolino. Facevamo parecchia fatica ad entrare nella distribuzione dei negozi quindi pensai che avevano bisogno di aprirci una strada. Serviva un’idea, qualcuno che ci tirasse la volata…».

Come il «Tasso» Bernard Hinault.

«Sì, proprio lui. Allora correva e dominava. Erano i tempi della Renault-Gitanes come sponsor e noi avevamo appena messo in produzione la sella Condor, rivoluzionaria per l’epoca. Chiesi ad alcuni conoscenti di procurarmi il nome del suo manager e con un po’ di faccia tosta lo contattai. Andai direttamente a Parigi alla fine del Tour. Riuscii ad incontrare Hinault e gli dissi che avrei potuto fargli la sella Condor personalizzata con lo stemma del Tasso che era il suo soprannome. Gli offrii anche una percentuale sulle vendite. Accettò. Nel 1980 poi vinse il titolo mondiale e io mi ritrovai con il campione del mondo sotto contratto…».

Sulle sue selle si sono seduti anche Eddy Merckx, Felice Gimondi, Miguel Indurain, Francesco Moser, Paolo Bettini tanto per fare qualche nome…

«E tanti altri ancora. Rapporti professionali con campioni che poi sono diventati amici. Eddy lo sentivo spesso, così Felice. Indurain ancora oggi passa qui a trovarmi ogni volta che viene da queste parti».

E Marco Pantani? Bigolin dice che con lui aveva un rapporto quasi paterno.

«Fa storia a sé. Con lui ho avuto un rapporto quasi paterno, ci parlavamo, si confidava. Quasi sempre dopo le sue vittorie ci incontravamo a cena a Cesenatico e proprio durante una di quelle serata nacque l’idea di chiamarlo “Pirata” in onore a suo nonno, uomo di mare. Un ’idea che poi è diventata una delle nostre selle più famose».

Poi, il 5 giugno 1999…

«L’ho pregato, quando è esplosa la “bomba” dell’ematocrito a Madonna di Campiglio, di non parlare, di allontanarsi dalle polemiche, gli ho anche proposto di andarsene per un po’ in una mia casa in montagna…».

Sembrano passati anni luce da quando tutto è cominciato…

«In un certo senso sì. Ora tra produzione, ricerca, commerciale e marketing diamo lavoro a 54 dipendenti qui in azienda e ad altre 600 se si considera l’indotto».

Come lo vede il futuro?

«Il futuro lo vedo nella bicicletta che nei prossimi anni sarà sempre più diffusa non solo nello sport ma soprattutto nel tempo libero. È un vizio, ma un vizio sano».

Cosa lascia ai suoi figli?

«Un consiglio. Parlate poco e lavorate tanto…».

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