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Martínez spiega la “comune” belga: «La mia è una nazionale di allenatori»

Il ct a El Paìs: “I belgi sono diversi, parlano tre lingue, si rendono conto che non tutto è a senso unico. I miei sanno che se sono fuori forma li convoco lo stesso”

Martínez spiega la “comune” belga: «La mia è una nazionale di allenatori»

Roberto Martínez è un allenatore di allenatori, mica solo il ct del Belgio. E’ a capo di un progetto che lui stesso, intervistato da El Paìs, definisce “culturale”. La sua nazionale è come una “comune”, che difficilmente varia in funzione della forma fisica. E che deve funzionare sul lungo periodo. “È importante che questa generazione, che ha raggiunto il bronzo in Coppa del Mondo, e da quattro anni è la numero uno al mondo, lasci qualcosa di tangibile”.

Per cui, i nazionali del Belgio hanno seguito tutti il corso da allenatori. “L’idea – dice – è che questi giocatori diventino allenatori nei prossimi dieci anni e continuino ad evolvere il calcio belga. Quando abbiamo iniziato a lavorare e studiare perché sono diventati giocatori di alto livello, ci siamo resi conto che lasciano il Belgio molto giovani e crescono molto giocando nei migliori campionati del mondo, e nei migliori spogliatoi. Non volevo che perdessero l’identità del calcio belga. È stato un programma di grande successo: 21 giocatori in attività hanno superato i corsi. Vermaelen ora è nel nostro staff tecnico”.

Cambia tutto, in effetti: “Non è che non mettono in discussione ciò che dici; è che puoi aggiungere altre opzioni alle tue. Il giocatore belga ha il dono naturale di essere un giocatore di squadra. In Spagna e nel calcio britannico c’è poco dialogo. In Belgio, dato che i giocatori fin da piccolissimi parlano tre lingue, si rendono conto che ci sono molte possibilità, che non tutto è a senso unico”.

Martínez dice che al Mondiale di Russia è scattata una molla. “C’era un senso culturale, non c’era l’intenzione di vincere. L’importante era giocare bene, competere. La nostra squadra, per quello che facevano i giocatori nel calcio europeo, per tutto il loro talento, potrebbe essere paragonata ad un dream team. Volevamo vederci in situazioni di impegno, di avversità. È lì che vedi la differenza. Ecco perché era affascinante. Tutto il lavoro aspettava il momento delle avversità, dovevamo essere preparati. Molti pensano che un campione sia il migliore in ogni partita e la vinca con due e tre gol. È falso. Il campione è quello che si adatta meglio nei momenti difficili”.

Per Martínez il Belgio ha una peculiarità storica: “Tutti i paesi sono venuti a combattere in Belgio, ecco perché il belga è abituato a non fare molto rumore e non vuole mai mostrarti quello che ha. È molto diverso dalle culture olandese e francese. Quando fanno qualcosa di buono, gli piace insegnarlo, gli piace assaporarlo. Si trattava di dire: noi abbiamo la nostra storia, dobbiamo celebrarla, spiegarla e far conoscere ai nostri giovani giocatori chi era Scifo e la generazione d’oro. Dobbiamo essere molto orgogliosi di ciò che il calcio rappresenta in Belgio. È un cambiamento con cui molte persone non si sono sentite molto a proprio agio. Perché dobbiamo insegnare le leggende che abbiamo?”.

Era molto importante che i miei giocatori capissero che facevano parte di una squadra. Che non li avrei chiamati solo quando erano in un buon momento di forma. E che quando non sono in un buon momento di forma, saremmo stati con loro e li avremmo aiutati. Ho tre liste: quelli che se anche non stanno bene fisicamente vengono convocati; un gruppo di giocatori che vengono a seconda del momento; e un altro gruppo che non è mai venuto, ma ha una qualità speciale”.

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