L’allenatore sa che l’unica rivoluzione possibile per coronare il sogno è quella della forza delle idee, del raccolto di una semina ponderata
“Verum esse ipsum factum”. Luciano Spalletti come Giambattista Vico, la Scienza Nuova o semplicemente la banale forza delle idee.
Questo Napoli disturba, infastidisce, sovverte i cartesiani classici del pallone nostrano. Gasp ha inventato il calcio moderno, Allegri non può essere infallibile, Mourinho è il mago dell’impossibile. Il Napoli non può essere riuscito in una rifondazione vincente senza pagare dazio. In fondo non ha preso né Di Maria né Dybala ed in una piazza umorale si sa, questo vale più del valore delle idee.
Nessuno era all’aeroporto a prendere Kvara ad esempio. Molti, dalle parti di Milano e dintorni, trattenevano le risate sui trentacinque milioni sborsati per Raspadori. “E chi è, Zaniolo?” pensavano. Questa città sommersa, inghiottita dal qualunquismo più autentico, questo mostro di banalità legato ai luoghi comuni sta ingoiando l’acqua pura della maturità. Felice è felice, ma i piedi sono ben saldi sul pavimento del Maradona e nessuna Piazza è già allestita a festa.
Siamo cresciuti insieme, andati all’Inferno dell’incertezza e maturati come un solo corpo. Squadra e città, antichi compromessi dissolte sulle vie di Damasco, convertiti a più alte sfere di lungimiranza. Luciano da Certaldo, lì dove nacque Giovanni Boccaccio che di Napoli fece la sua casa artistica e musa geniale, quel Boccaccio che passò la vita a rincorrere e a spiegare Dante e la Commedia che lui stesso definì Divina e non altri. Cosi come Boccaccio anche Spalletti insegue la consacrazione più autentica, quella concessa ad Ottavio Bianchi, legare ad un filo di gemme la piazza con la squadra tenendo ben chiaro che l’unica rivoluzione possibile è quella della forza delle idee, del raccolto di una semina ponderata.