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Dalla Bona: «In Italia ogni partita è una guerra. A Londra ti accorgi dei tifosi solo durante le partite»

Intervista a Sportweek: «Le pressioni al Chelsea erano pochissime. E dai tifosi nessuna. Per strada ti fermavano gli italiani, quasi mai gli inglesi».

Dalla Bona: «In Italia ogni partita è una guerra. A Londra ti accorgi dei tifosi solo durante le partite»

Sportweek intervista Samuele Dalla Bona, ex centrocampista di Atalanta, Chelsea, Milan e anche del w. Racconta il passaggio al Chelsea dall’Atalanta, nel 1998, quando raggiunse Vialli e la colonia italiana.

«Trovai una mentalità diversa, in tutto. Per esempio: in Italia noi facevamo colazione con tè e fette biscottate, un pranzo leggero prima delle partite. In Inghilterra c’era chi mangiava di tutto e poi scendeva in campo. Ricordo che prima di una partita di Uefa Hasselbaink si fece fare addirittura una carbonara. E giocò benissimo».

Non c’erano nemmeno i ritiri.

«Per le partite in casa, mai andato in ritiro. Ci si trovava a mezzogiorno per pranzare assieme e poi si andava nello spogliatoio, dove veniva data la formazione. Un po’ come in Terza categoria in Italia. Ci si fidava della professionalità dei giocatori».

Pressioni?

«Poche. E dai tifosi nessuna. Per strada ti fermavano gli italiani, per gli autografi, quasi mai gli inglesi. Allo stadio si entrava per il riscaldamento e sulle tribune non c’era nessuno, erano tutti a bere e a mangiare. Ma poi durante la partita c’era un grandissimo calore, un grande tifo».

Eppure, nonostante questo “paradiso” Dalla Bona tornò in Italia, al Milan.

«Ranieri aveva cambiato la mia storia al Chelsea. Mi faceva giocare tanto e si parlava di rinnovo del contratto. Mi volevano tutti bene e il mister, quando arrivò l’offerta del Milan, cercò di farmi capire che ormai la mia carriera era improntata a quello stile di calcio e di vita, diverso rispetto all’Italia. Ma al Milan, quel Milan, non riuscì a dire di no».

Notò subito le differenze?

«Dal punto di vista delle pressioni, sì. In Italia il calcio era ed è una guerra continua. Per fortuna quella era una squadra stellare. Avevo legato soprattutto con Gattuso, Ambrosini, Pirlo e Nesta. Sapevo che sarebbe stata una sfida difficile ma sentivo la fiducia. Fino a marzo del 2003, a Real Madrid-Milan 3-1 di Champions. Da lì ho notato che era cambiato qualcosa con Ancelotti. Grandissima persona e grandissimo gestore, perché cosa potevi insegnare a Maldini, Seedorf o Shevchenko? Però, forse non si fidava completamente dei giovani. O, forse, io non ero all’altezza di quel Milan…».

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