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In Italia acquistare i giovani Lucca e Casadei vuol dire rischiare il linciaggio

Da noi vige la dittatura del tifoso che vuole vincere e la cui mentalità è coccolata dai media. Con buona pace della cultura sportiva e d’impresa

In Italia acquistare i giovani Lucca e Casadei vuol dire rischiare il linciaggio
Db Milano 20/07/2022 - protesta tifosi Inter / foto Daniele Buffa/Image Sport nella foto: striscione tifosi Inter

Il dibattito, giustamente, è già cominciato. Non poteva essere altrimenti, visto che per la prima volta l’Ajax ha acquistato un calciatore italiano e il calciatore – Lorenzo Lucca – ha 21 anni, gioca nel Pisa, non ha una sola presenza in Serie A. L’Ajax ha sborsato dieci milioni e se l’è portato ad Amsterdam. Ha battuto la non temibile concorrenza del Bologna. E ieri più di un lettore ha strabuzzato gli occhi alla notizia che il Chelsea ha bussato alle porte dell’Inter per il 19enne Casadei che da noi è un perfetto sconosciuto a meno che non siate intenditori professionisti di calcio giovanile. Libero paragona Lucca a Verratti altro esempio di giovane calciatore che dalla Serie B (il Pescara) finì dritto al Psg perché il Napoli e la Juve non ebbero il coraggio di puntare su di lui. Esempio interessante non tanto per il valore dei due calciatori ma perché in dieci anni nulla è cambiato. Anzi, se possibile, la situazione è persino peggiorata.

Ne scrive Franco Ordine che giustamente sottolinea la mancanza di coraggio degli allenatori, l’assurdità della norma fiscale che favorisce l’arrivo di giocatori stranieri. Ma trascura a nostro avviso un passaggio fondamentale: la reazione del cosiddetto ambiente. Dell’entorno come si dice in Spagna. Provate a immaginare la reazione dei tifosi di Roma, Napoli, Inter (ma vale per tutte le squadre di vertice) alla notizia degli acquisti di Lucca e Casadei. Non vorremmo mai essere nei panni di quegli ipotetici dirigenti.

La triste, tristissima, realtà è che in Italia si è culturalmente schiavi delle tifoserie che, al pari del Paese, sono del tutto prive di cultura sportiva (oltre che di cultura d’impresa). La situazione non è soltanto deprimente, è drammaticamente grave. Ogni anno, a diverse latitudini, assistiamo allo stesso spettacolo. Ormai questa strana entità che chiamiamo tifosi, è perennemente incazzata. Per tutto. E soprattutto perché VUOLE vincere. Un concetto e una pretesa tanto infantili quanto ridicoli. Che spazzano via ogni passaggio di un processo di crescita e di evoluzione che invece – com’è logico che sia – è per forza di cose tortuoso, complesso, pieno di saliscendi, piccole gioie cui fanno seguito cocenti delusioni. È la vita, diremmo cedendo alla retorica. È effettivamente così.

Tutto questo il tifoso non vuole sentirlo. Il tifoso già soffre troppo nella vita reale (così dice), il calcio è la sua isola che non c’è. Il tifoso si autoproclama cieco e irresponsabile. Non vuole saperne di sconfitte, bilanci, monte ingaggi. Sono fastidi per lui insopportabili. Quisquilie che appartengono alla vita terrene. Lui col calcio pretende di volare e se non riesce a volare si incazza. Si incazza a Milano per Skriniar. A Roma per la tirchieria di Lotito. A Bari perché pretende la Serie A. Persino a Parigi si sono incazzati contro l’essere spendaccioni senza logica da parte del Psg. Anche a Torino sponda granata ma lì, onestamente, non ce la sentiamo di infierire: qualche ragione ce l’hanno.

Ogni stagione è etichettata come fallimentare se non si giunge a un successo. Addirittura cominciarono a lamentarsi i tifosi della Juventus dopo un numero mostruoso di scudetti consecutivi. Volevano la Champions. E sbattevano i piedi. Così come hanno fatto gli ultras dell’Atalanta. Il piacere per il gioco non esiste più. Per la giocata. Per la crescita di un calciatore. Per un gesto atletico. Niente. A Napoli ormai si va allo stadio solo se c’è la possibilità di vincere, altrimenti si resta a casa.

Concedete di soffermarci qualche rigo sulla piazza di Napoli. Dove la squadra arrivata terza e che è stata in lotta per lo scudetto fino a sei giornate del termine, è stata oggetto di contestazioni, lanci di pietre e uova, striscione contro l’allenatore. Non solo. In città si respira un clima a dir poco rabbioso (giustificato da tante ma tante persone) perché il Napoli sta conducendo una campagna acquisti europea. Ha tagliato i rami secchi Insigne e Mertens, lasciato partire il 31enne Koulibaly e ha avviato una campagna acquisti che fuori dai confini nazionale definirebbero mirata e intelligente, oltre che di rafforzamento. Da noi i media dipingono il Napoli come una squadra gravemente indebolita.

Sono arrivati. Il Napoli ha acquistato Khvicha Kvaratskhelia (21 anni), Mathias Olivera (24), Kim Min-jae (25), Leo Østigård (22). E sta trattando Giacomo Raspadori (22), Giovanni Simeone (27) e il portiere Kepa Arrizabalaga (27). Il risultato è che De Laurentiis quasi non può far vedersi in pubblico per timore di contestazioni perché ha lasciato partire Ciro Mertens il figlio di Napoli, e perché non vinceremo mai. Perché – attenzione – un calciatore è scarso se non è conosciuto dal tifoso. Il tifoso è misura di tutte le cose. È un dogma. Non è un suo problema se non conosce i giovani calciatori in giro per il mondo. No. È un problema degli altri, di chi per lavoro li conosce ma deve subire.

L’aspetto inquietante, e che renderà questa situazione perenne, è che questa mentalità del tifoso viene assecondata, coccolata dai media, dai giornalisti. Il meccanismo è semplice. Il fruitore del giornalismo sportivo è il tifoso e quindi va utilizzato un codice a lui caro, in cui possa riconoscersi. Oggi l’informazione è intesa quasi solo in senso accomodante. Deve ingraziarsi l’utente che paga e quindi non va scontentato. La cultura dei like ha praticamente seppellito la possibilità di analisi critiche che pongano interrogativi. È anche comprensibile, logico. Oggi il dibattito non esiste, soppiantato dall’invettiva e dall’insulto. Quindi il tifoso trova attorno a sé quasi solo tesi che confortano la propria irrealistica visione del calcio. Frasi come “bisogna capire i tifosi” sono ormai un tormentone.

Le scene di gioia dei romanisti per Dybala soppiantano ogni analisi critica dell’operazione. Il popolo è contento, e tanto basta. Vale anche per Lukaku. Così come sarebbe valso a Napoli in caso di permanenza di Mertens. Ricordiamo che fin qui il Bayern, dopo la cessione di Lewandowski, ha acquistato il 17enne francese Mathys Tel dal Rennes per 28 milioni.

La visione del tifoso – che a nostro modesto avviso rivela una congrua dose di disadattamento sociale – viene riproposta e gonfiata ora dopo ora, giorno dopo giorno. Nonostante il giornalismo economico-finanziario calcistico si è ormai definitivamente affermato. Ma resta roba per i tifosi adulti (come i cattolici adulti di prodiana memoria): poca roba.

Tutto questo fa sì che in Italia sia impossibile per qualsiasi club di primo livello presentarsi con Lucca e Casadei senza rischiare il linciaggio. Del resto Zaniolo fu scoperto dal grande pubblico perché inserito come resto in spiccioli nel presunto affare che portò Nainggolan all’Inter. Difficilmente le cose cambieranno. Ci si può solo consolare pensando che i recenti trasferimenti di giovani calciatori all’estero non sono andati poi così bene, pensiamo a Pellegri, Kean, Cutrone. Per il resto bisogna rassegnarsi. La cultura sportiva in Italia, così come quella d’impresa, è roba per specialisti. Un intralcio dialettico. Da confinare al massimo in qualche forbito commento nelle pagine interne.

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