Intervista con il cardinale José Tolentino: “Prima vincevo per me, ora per gli altri. Se c’è una cosa che ancora mi fa impazzire è lo spreco del talento”
Quell’uomo che di notte si aggira, silenzioso, per San Pietro potrebbe essere José Mourinho. “Ci vado spesso, da solo. La mascherina aiuta, l’oscurità della notte anche…”. Ha un modo tutto suo di parlare a Dio, s’è costruito nel corso degli anni una sua religione della maturità. E “confessa” questo suo lato intimo in un lungo dialogo con il cardinale José Tolentino de Mendonça, Archivista e Bibliotecario di Santa Romana Chiesa, pubblicato dall’Osservatore Romano. Una sorta di intervista-riflessione tra riferimento al filosofo portoghese Manuel Sérgio, e continui richiami allo spogliatoio, alla vita del calcio, al suo rapporto con i giocatori. Con una base di partenza:
“Lo sport di alto rendimento, in particolare il calcio, che è lo sport più industrializzato a tutti i livelli, ha qualcosa di crudele. Ma il calcio non è, come la gente pensa, la mia vita, è soltanto una parte importante della mia vita, ma c’è un’altra parte che è molto più importante del calcio. Il calcio è l’ultima cosa di cui parlo, è l’ultima cosa a cui penso, l’ultima cosa per la quale chiedo qualcosa”.
Mourinho si racconta in “evoluzione”:
“Per molti anni ho voluto vincere per me stesso, mentre adesso sono in un momento in cui continuo a voler vincere con la stessa intensità di prima o addirittura maggiore, ma non più per me, ma per i giocatori che non hanno mai vinto, voglio aiutarli… Penso molto di più al tifoso comune che sorride perché la sua squadra ha vinto, alla sua settimana che sarà migliore perché la sua squadra ha vinto. Continuo a essere un ‘animale da competizione’, per così dire, continuo a voler vincere come o più di prima, ma prima mi concentravo su me stesso…”.
“Le esperienze buone, quelle meno buone, non hanno prezzo. A volte penso che l’unica cosa che non mi piace molto dell’avanzare degli anni è che ho un dolorino qui, un dolorino lì, che mi sveglio un po’ più stanco, ed è l’unica cosa che davvero non mi piace dei miei 59 anni, ma se devo compararmi come persona, come allenatore, che sono due cose diverse, bene se devo compararmi con 20 anni fa… mi dispiace molto non aver avuto 20 anni fa le esperienze, buone e meno buone, e le conoscenze che ho oggi. A livello tecnico propriamente detto, entriamo in una situazione quasi di déjà-vù, perché quello che mi succede oggi mi è già successo anni fa. Le difficoltà tecniche di oggi le ho già sperimentate anni fa. Un cumulo di esperienze buone e meno buone… ma a livello umano, ogni giorno è un giorno nuovo, e ogni persona è una persona nuova…”.
L’unica cosa che cambia, la variabile feconda del suo lavoro, sono i giocatori:
“Io mi rifiuto sempre di fare paragoni tra giocatori. In questi ultimi 20 anni ne ho avuti tanti, e ciascuno è unico, a livello tecnico possiamo trovare dei punti di comparazione, ma fare paragoni tra persone è una cosa che odio fare. Ogni persona è diversa dall’altra, e anche il mio modo di pormi con loro è diverso: perché una cosa è essere un allenatore di 35 anni di calciatori di 30, altra cosa è essere un allenatore di 59 anni di giocatori di 25. Mi sento in una posizione così privilegiata e mi sento così felice in questa prospettiva. Quando uno è giovane, è all’inizio della carriera, pensa di sapere tutto. E quando oggi vedo le generazioni più giovani con questo tipo di pensiero, non lo critico. Ci sono passato da lì, la maturità è una cosa fondamentale. Invece lo sport di alto rendimento conosce momenti di vera crudeltà”.
L’agonismo è crudeltà:
“Siamo pagati per vincere. Gli atleti, non gli uomini, sono pagati per vincere. Stiamo parlando di alto rendimento, e a volte ci sono decisioni nella gestione di una squadra che hanno qualcosa di crudele: non c’è il tempo di lasciare maturare, di lasciare crescere. L’errore si paga. Se commetto un errore, lo pago con l’esonero. Se un giocatore commette un errore, lo paga non giocando a beneficio di un altro. C’è qualcosa di crudele, ma non possiamo lasciare che la natura del nostro lavoro si sovrapponga a quello che siamo come persone. Ce l’ho ben chiaro questo. Cerco di aiutare gli altri e me stesso a essere migliore. Una cosa difficile per me da accettare è lo spreco del talento, è una cosa che ancora oggi dopo 30 anni di calcio, è difficile per me da accettare. A volte, però, lo spreco di talento è legato al percorso di vita che alcuni giocatori hanno avuto, e in questo senso dobbiamo cercare di essere pedagoghi fino in fondo”.
E nel rapporto con i giocatori c’è qualcosa di religioso:
“Ho davanti a me 25 uomini con tradizioni diverse, credi diversi, ma io lo chiamo il segno +, quello che può fare la differenza, un convincimento comune, a cui ognuno dirà di sì, il libero arbitrio, si crede in quello che si vuole, si crede più o meno nel divino, ma il plus viene sempre un po’ da quell’area che non si tocca, ma si sente, è astratto. Ritengo, per esempio, che per la preparazione di una competizione di altissimo livello, che comporta pressione, responsabilità, dove bisogna superare o trascendere, occorra metterci qualcosa in più di quello che abbiamo allenato, a cui ci siamo preparati, e questo qualcosa in più ritengo che sia molto legato alla propria spiritualità, quello che fondamentalmente alimenta quel segno +. Quel qualcosa in più può essere anche pensare tutti insieme alle persone che desiderano fortemente che oggi vinciamo. E chi sono queste persone: quelle che ci amano, quelle che noi amiamo, quelle che amano il club e i suoi simboli. Penso che nei momenti chiave devi scavare nel tuo profondo e non aggrapparti esclusivamente alla preparazione“.