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«Gli atleti paralimpici sono costretti ad essere ironici, girano battute che non immaginereste mai»

Il CorSera intervista il presidente Luca Pancalli: «Non siamo sfigati né eroi, siamo atleti. Vogliamo essere rispettati e riconosciuti attraverso legittimazione della nostra dignità»

«Gli atleti paralimpici sono costretti ad essere ironici, girano battute che non immaginereste mai»

Sul Corriere della Sera una bella intervista a Luca Pancalli, presidente del Comitato Italiano Paralimpico. Paralizzato dal 1981 per una caduta da cavallo a Vienna, durante un meeting internazionale di pentathlon moderno, all’età di 17 anni: frattura delle vertebre cervicali, lesione midollare.

Dice di non essere stupito tanto delle 58 medaglie in nove giorni raccolte dall’Italia, quanto dell’attenzione generata dalla Paralimpiade in Italia.

«Tokyo segna un salto di qualità. Vedo la giusta considerazione che questi atleti azzurri meritano, lasciando perdere pietismo e compassione».

Quasi tutti i medagliati in Giappone si sono raccomandati: non chiamateci eroi.

«A Seul ‘88, la mia seconda Paralimpiade, i titoli sui giornali erano sugli eroi sfortunati. Ci vuole misura nelle cose: non siamo sfigati e non siamo eroi. Siamo atleti. Il riconoscimento del movimento paralimpico passa dalla legittimazione della nostra dignità».

Pancalli racconta l’ironia propria degli atleti paralimpici, a partire da Bebe Vio.

«Questo è un mondo in cui ci si prende molto in giro, c’è un’autoironia sulle proprie sventure di vita comune a tutti. Lo sport insegna a guardare alle tue abilità, non alle disabilità. Girano battute che non immaginereste mai: quello che a voi sembra anormale, qui è tremendamente normale».

Lo sport l’ha costretta in sedia a rotelle: l’ha mai odiato?

«Mai, mai, mai. Lo sport mi ha forse tradito ma poi mi ha restituito la consapevolezza di potermi rialzare e rinascere».

L’Italia è un Paese gentile con i disabili?

«È un Paese con luci e ombre. Si possono fare molti passi avanti sul diritto allo studio e al lavoro, sull’assistenza a chi non è autosufficiente, sull’erogazione di protesi e ausili ai ragazzini amputati perché l’handbike di Zanardi costa. Iniziamo a rispettare il diritto al posto di chi è da anni nelle liste di collocamento… Dobbiamo continuare a credere nello sport come strumento di welfare anche dopo Tokyo».

I riflettori di Tokyo si spegneranno e i problemi legati alla disabilità resteranno.

«Non c’è solo lo sport paralimpico, qui in Giappone sono venuti solo in 114 atleti: c’è lo sport quotidiano come percorso di riabilitazione e benessere. C’è la coscienza di un Paese che deve continuare a riconoscere il diritto di cittadinanza dei disabili. Io spero che chi parla ora, chi cerca i like con le nostre medaglie, non ci abbandoni e resti dalla nostra parte per combattere in favore di politiche sociali che ci riguardino».

Gli chiedono un parere sulla proposta di far disputare contemporaneamente Olimpiadi e Paralimpiadi.

«È un sogno rischioso: tra l’oro di Tamberi e quello di Barlaam prevarrebbe sempre il primo. Il percorso di maturazione culturale non è completato, i disabili gravi verrebbero abbandonati perché sono poco televisivi, nella Paralimpiade invece è giusto che il palcoscenico sia tutto per loro. Essere televisivi non ci interessa. Ci interessa avere rispetto e riconoscimento».

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