L’omaggio del Domani a un anno dalla scomparsa di Zavoli: «Quando chiusero il cancello dell’ospedale psichiatrico sono impazzita di terrore»

L’anno scorso, oggi, moriva Sergio Zavoli, uno dei più noti giornalisti italiani. Per ricordarlo, il Domani ripropone una sua intervista alla poetessa Alda Merini. In essa, la Merini racconta la sua esperienza nell’ospedale psichiatrico dove fu ricoverata nel 1961, a Milano. Vi rimase, con piccole pause, fino al 1972. Non era la prima esperienza del genere, per lei: nel 1947, a sedici anni, fu ricoverata per la prima volta in una clinica psichiatrica, sempre a Milano.
La Merini racconta di quando il marito la portò in ospedale per farla rinchiudere. Non le aveva detto che sarebbe rimasta lì. La cosa la ferì profondamente.
«Mi sconvolse; mi venne una tale rabbia. Mio marito mi venne a prendere due-tre giorni dopo, ma non tornai a casa più. Non volli più tornare. Perché non avevo capito! Mi è venuto un accidente quando m’hanno chiuso i cancelli dicendomi che quella sera non sarei tornata a casa. L’idea della separazione da mio figlio mi ha fatto impazzire… Quello che ha scatenato veramente la follia è stata l’idea di non vedere la famiglia. Ho pensato, più che altro, allo spavento dei miei bambini e sono impazzita di terrore».
La diagnosi con cui fu ricoverata fu di “ebefrenia” o “schizofrenia giovanile”. All’origine del malessere della Merini, una ferita d’amore.
«Sì, ho avuto una passione durante il matrimonio, ma per niente al mondo avrei lasciato mio marito! Sì, l’amore, la passione per un altro può essere una causa scatenante, però quando c’è una fede solida, e si è sposati, bisogna superare queste tentazioni. Le abbiamo avute un po’ tutti. È uno degli inconvenienti che possono capitare. Allora, a volte, il manicomio si presenta come un crepaccio in cui si rischia di affondare».
Spiega come è nato in lei il malessere.
«Mah, credo sia stata un po’ una depressione post partum. Non curata, sottovalutata».
Aggiunge:
«Spesso la pazzia scoppia e si preannuncia sempre come una forma di nevrosi, se non viene presa in tempo è come una bronchite che può diventare broncopolmonite».
Prova rabbia nei confronti di qualcuno? La Merini risponde:
«Sì. Io provo rabbia per quelli che sono indecisi, quelli che non vengono all’appuntamento all’ora giusta, quelli che d’abitudine non tengono in conto l’altro, che mi prendono così, per una qualunque, e pensano che sia facile far poesia, che sia facile diventare celebri, che sia facile anche soffrire! Non tutti, invece, sanno soffrire. Io sì, so soffrire. E percepisco la sofferenza come un fatto di vita perché fa parte della vita».
E sul vittimismo:
«Mi danno fastidio le vittime perché o sono cattive d’animo o cercano di attirare su di sé l’interesse degli altri. Il vittimismo è un po’ come il capriccio del bambino che tante ne fa finché lei lo pesta ben bene perché non ne può più. Bisogna capire che ognuno soffre a modo suo, alle volte ci si può anche uccidere per un gatto che muore, dipende dal modo di amare».
Qual è stata l’esperienza che le ha dato più sollievo?
«La libertà».