Dan Peterson: «Dopo Mani Pulite l’Italia non si è più ripresa, oggi si piange troppo addosso»
A Specchio: «Agli allenatori dico: parlate di meno. Le sconfitte aiutano a crescere. L'Nba è diventata un tiro a segno, meglio il basket europeo».

Specchio intervista Dan Peterson. Sbarcato in Italia nel 1973, non ha più lasciato il nostro Paese. Allenatore, commentatore, testimonial pubblicitario e uomo di spettacolo. Ha fatto i tutto. Ha 85 anni.
«Mia mamma voleva che diventassi un artista. Sa, lei faceva la modista, creava cappelli e borse. Aveva una calligrafia bellissima. Mio padre mi avrebbe voluto avvocato, lui è stato un tenente di polizia. Ma io dietro a una scrivania non ci volevo proprio stare».
Così scelse il basket. Troppo basso per giocare, è diventato allenatore. Ma il basket di oggi, dice, è molto diverso da quello dei suoi tempi.
«Il basket come lo intendo io non esiste più, l’Nba si è trasformata in un tiro a segno. Meglio quello europeo, allora».
Racconta il suo rapporto con le sconfitte.
«Le sconfitte aiutano a crescere, mi hanno segnato. Ma se vai in campo senza pensare di poter vincere, allora è tutto inutile».
Racconta la rimonta di Salonicco, che definisce la più sorprendente della sua carriera.
«Coppa dei campioni, 6 novembre 1986. Io alleno la Tracer Milano e all’andata perdiamo in Grecia di 31 punti. Come si prepara una gara di ritorno praticamente impossibile? Rimango in silenzio per tutta la settimana durante gli allenamenti, non sapevo che dire alla squadra. I giocatori lavoravano solo con i miei collaboratori. Dovevo inventarmi qualcosa di semplice ma allo stesso tempo convincente per motivare un gruppo finito sotto un camion. Allora dico solo questo: la partita dura quaranta minuti, se recuperiamo un punto a minuto ce la possiamo fare. Banale, ma logico».
Il risultato finale fu di 83 a 39 per la Tracer. La squadra passò il turno e vinse poi la coppa dei campioni.
Peterson parla anche di cosa è diventata l’America.
«La Polizia fa giganteschi sbagli, e lo dico io che di un poliziotto sono figlio. Ma il problema è che ogni cosa adesso diventa razzismo. La gente non chiama la polizia per dire ciao o buongiorno, lo fa perché si sente in pericolo, i poliziotti sono ipertesi e finiscono per perdere la testa».
E spiega che idea si è fatto del suo Paese.
«Non più Stati Uniti, ma Stati Disuniti. Io sono centrista, non amo le ideologie. L’America, però, si sta indebolendo e una nazione per essere credibile deve essere forte e sicura. I presidenti mettono la mano sulla Bibbia e giurano di proteggerci dai nemici stranieri e domestici, ogni tanto ce ne dimentichiamo».
Parla anche dell’Italia, quella che lo accolse anni fa.
«Spaccava tutti quell’Italia, c’era una gigantesca voglia di stupire. Poi è arrivata Mani Pulite e non vi siete più ripresi, la circolazione delle idee è rallentata. Oggi l’Italia tende a piangersi troppo addosso, se la smette può tornare quella di una volta».
Gli chiedono se ha mai visto un suo giocatore leggere un libro. Risponde:
«Difficile trovarne uno. Anzi, no. Joe Barry Carrol, ha giocato solo un anno a Milano: ecco, lui veniva in trasferta con l’opera completa di Shakespeare».
Infine, dà un consiglio agli allenatori.
«Di parlare di meno. Invece di scrivere una lettera, a volte con i giocatori basterebbe un telegramma. È più efficace».