Trentalange: «Il calcio è metafora di vita. L’integrità di una persona si riconosce in campo»
Al Corriere Torino: «C’è chi pensa solo a se e non ti passa la palla, chi ti insulta, chi ti consola, chi simula... E se lo fanno lì, lo fanno in ufficio e tra la gente»

Il Corriere Torino intervista Alfredo Trentalange, neo eletto alla guida dell’Aia, Associazione Italiana Arbitri. Difende la tradizione arbitrale torinese.
«Torino ha una sezione molto buona, ha cresciuto e lanciato tanti arbitri. Penso a Lops, Gonella, Pairetto, Rosetti… e tanti altri. C’è sempre stata grande continuità perché è un sistema che funziona, dove chi è più esperto si è sempre messo a disposizione dei giovani. Anche questo è gioco di squadra: quando il mio problema è tuo questa è la politica nel senso migliore».
Parla del calcio come metafora della vita.
«Senza dubbi, l’integrità di una persona si riconosce in campo. C’è chi pensa solo a se e non ti passa la palla, chi ti insulta, chi ti consola, chi simula… E se lo fanno lì, lo fanno in ufficio e tra la gente».
Prese la decisione di arbitrare quando aveva 15 anni.
«Feci un provino con il Toro, ero una mezzala, mi dissero che se amavo il calcio potevo fare l’arbitro o il giornalista».
A 17 anni, in Terza categoria, fu aggredito.
«Presi un pugno in faccia dopo il rosso a un calciatore. Mi spiacque anzi, perché poi i compagni picchiarono lui… Ricordo che arrivava da lontano protestando, io lo misi fuori e lui mi colpì».
Non sospese la partita, però. E se ne pente.
«Feci un errore tecnico, i compagni menarono lui. E io portai a termine la gara: non è la cosa giusta, in questi casi si interrompe».
La prima partita in A fu con il Napoli di Maradona.
«L’esordio davanti a 60 mila persone e con Diego. Ero felice come un bambino cui avevano regalato un pallone. È stata un’esperienza straordinaria, arrivare in A è il sogno. E quando succede pagheresti tu per fare Inter-Milan».











