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Tognazzi: “Oggi Ultrà avrebbe un finale diverso, ma nel 1991 consegnare il Principe sarebbe stato da infami”

Il film cult compie 30 anni. Il regista a La Stampa: “Oggi è normale comunicare via social, il personaggio di Amendola parlava con la tv, all’epoca era un disadattato”

Tognazzi: “Oggi Ultrà avrebbe un finale diverso, ma nel 1991 consegnare il Principe sarebbe stato da infami”

Oggi, 30 anni dopo l’Orso d’argento a Berlino in coabitazione con Jonathan Demme, Ultrà “rischierebbe l’autocensura, proveremmo magari a trovare un finale etico”. Perché quel mondo aspro di trasferte di massa e vecchio tifo oggi non esiste più. E’ cambiato tutto. Ricky Tognazzi, il regista di quel capolavoro un po’ unico nel suo genere, ne parla con La Stampa.

“La Rai ha cercato in tutti i modi una chiusura più conciliante, si aspettavano la denuncia del capo banda che per sbaglio accoltella uno dei suoi. Invece c’è chi prende le distanze, ma nessuno lo consegna. Il codice d’onore malato che tiene insieme il gruppo resta. Lo facessi oggi mi farei forse condizionare. A 65 anni il senso della morale si rafforza, a 35 la ribellione ce l’hai dentro. Nel 2021 abbiamo una sensibilità differente. Chissà, è un film figlio del 1991 e allora l’ipotesi di mitigarlo non l’abbiamo mai presa in considerazione. Consegnare il colpevole sarebbe stato da infami”.

Tognazzi racconta la genesi del film. Con l’alone del “neorealismo” e “l’unica condizione”: “protagonista Claudio Amendola, quindi la squadra era per forza la Roma”.

«Ci dicevano, “siete matti” e a ripensarci oggi lo siamo stati. Solo che io non vedevo gli ultrà chiusi in uno stereotipo, mi interessava fare un gang movie come I guerrieri della notte o Il ribelle. Ci sono parti in cui i tifosi agiscono da teppisti, ma pure un rito di passaggio che per molti è, o almeno è stata, la curva. Morta la politica, il calcio era rimasto il solo terreno di partecipazione».

Il capo branco è un disadattato, il personaggio di Amendola, il Principe, a un certo punto parla con la televisione, oggi è normale comunicare via social, nei Novanta interagire con un elettrodomestico era alienazione pura. È una storia di esclusione che non ha neppure bisogno di giudizi”.  “Si parla di una generazione di invisibili”.

All’uscita del film furono attaccati.

“In Italia puoi permetterti di tutto, ma non di toccare la mamma e il pallone. Amendola non è andato in curva per anni, io ho avuto gli onori degli striscioni. Mi accusavano di aver dipinto i tifosi come animali. Se parlavo a tu per tu con un ragazzo della curva si diceva coinvolto, se li incrociavo in sei mi guardavano male, volevano farmi sentire in pericolo. Persino Venditti, che ha firmato la colonna sonora, è finito nella lista nera”.

C’erano pochi soldi, “il budget era al minimo. Io mi ero tenuto la scena madre per ultima credendo così di poter prolungare il soggiorno e alla fine invece di girarla al Comunale l’ho dovuta fare a Villa Ada, a Roma, in campo strettissimo. Ero inesperto, ho imparato che quello che conta si fa appena si può”.

Mitico il cameo di Massimo Ferrero, attuale presidente della Sampdoria, che nel film è Biancone, con il figlio laziale. Ma Amendola era carisma puro. Anche se non toccava a lui il ruolo del “Principe”.

Amendola doveva essere Red, il ruolo poi andato al debuttante Ricky Memphis. Per convincere Amendola a essere il più cattivo abbiamo dato potere di seduzione al personaggio. È legato a un’erotica passione, probabilmente non la leggiamo più così”.

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