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“Vedi Omàr quant’è bello”. Sivori, il meglio prima di Maradona

Diecimila tifosi e lo striscione “Tu si na cosa grande” lo accolsero alla stazione di Mergellina. Riceveva 50 lettere al giorno

“Vedi Omàr quant’è bello”. Sivori, il meglio prima di Maradona
Archivio fotografico Carbone

Ode, canto ed epinicio per Omar Sivori, il cabezòn, dodici anni in Italia, otto alla Juve, dove arrivò nel 1957 per 190 milioni di lire, quattro nel Napoli, il più grande prima che comparisse Diego Armando Maradona.

Re mago di magie, il campione di scuola argentina, funambolo sfottente, calzettoni a cacaiola. Omar Sivori attirava il pallone sul piede mancino, uncino fatato, calamita d’inganni. E cominciava la danza. Passetti avanzanti, rientri, scarti, la finta. Strabuzzavano gli occhi i terzini a quei giochi d’artista. Dov’era la palla, vista, non vista. Sotto il tallone dell’allegro fellone. Sotto la punta dell’ultimo bullone. Sopra la scarpa per la carezza di pura destrezza. Sivori dava scacco con un colpo di tacco.

Con la faccia impunita Omar sfidava l’intera difesa munita. La corteggiava, l’invitava e vi s’intrufolava ridendo in faccia all’avversario che rendeva precario. Inventore del tunnel. La palla infilata fra le gambe del difensore gabbato. Davanti al portiere la sosta maligna, l’invito dell’ultimo inganno. Il danno dell’estremo colpo a sorpresa. La resa dell’infelice guardiano. La beffa finale del ballerino geniale. La conclusione del tango. Col sole e nel fango.

Alla stazione di Mergellina, con uno striscione: “Tu si’ ‘na cosa grande”, diecimila tifosi napoletani accolsero Omar Sivori al suo arrivo nel 1965. Heriberto l’aveva fatto fuori dalla Juve. Stava per essere ceduto al Varese quando Pesaola lo convinse a scegliere Napoli. Un giornale napoletano titolò: “Vedi Omàr quant’è bello”. Lauro regalò due motori navali alla Fiat e saldò l’acquistò di Sivori con 70 milioni.

A Napoli Sivori girava su una “Mercedes Pagoda” bianca con autista personale, il fedele Scarpitti, un magazziniere che il Napoli gli assegnò. Riceveva 50 lettere al giorno. Abitava davanti al mare di Posillipo, a Villa Gallotta. Disse: “Il pubblico napoletano è capace di riscaldare anche le pietre con il fuoco del suo entusiasmo”.

La rivalità con la Juve di Heriberto lo vide protagonista in Svizzera nella Coppa delle Alpi del 1966, con la partecipazione della squadra juventina, quando guidò il Napoli alla conquista del trofeo, la prima coppa internazionale della storia azzurra.

Nel campionato ’66-’67 trascinò 40mila napoletani all’Olimpico, vittoria del Napoli contro la Roma per 2-0, gol di Braca e Omar. Il Napoli di Sivori e Altafini si piazzò terzo, quarto e secondo. Alla seconda stagione, soffrì per il riacutizzarsi di uno strappo. Andò avanti con infiltrazioni di novocaina e cortisone.

Archivio Carbone

Ci rimise i menischi in una tournée americana del Napoli nel 1967. A Cali invitò alla partita Nestor Rossi, l’asso argentino che amava più di tutti (chiamò Nestor uno dei suoi figli). Si esibì in uno spettacolare palleggio davanti al campione ammirato, mise il piede in una buca e i ginocchi fecero crac. Operato da Gui, per la stagione ’67-’68 Pesaola si impegnò nel suo recupero. Omar voleva tornarsene in Argentina, il petisso lo convinse a rimanere. Quell’anno giocò solo sette partite.

Nella stagione successiva, l’addio clamoroso al “San Paolo” proprio nel match contro la Juve di Heriberto. Il Napoli vinse con due gol di Montefusco (2-1), ma per tutta la gara Sivori fu inseguito da Erminio Favalli, finta ala destra col compito di marcare Omar. All’ennesimo fallo dello juventino, si scatenò una rissa. Napoletani e juventini si azzuffarono davanti alla panchina di Heriberto. Panzanato, che in campo era il paladino di Omar, sferrò un pugno a Salvadore. Nella mischia entrò anche Chiappella, allenatore azzurro, e Sivori fece la sua parte. Le sanzioni furono dure: 9 giornate a Panzanato, 6 a Sivori, 4 a Salvadore, due mesi a Chiappella.

Era l’1 dicembre 1968, nona giornata di campionato. Sivori decise di lasciare il calcio. Il 23 dicembre volò a Buenos Aires. Fino all’arrivo di Maradona, non ce ne sarebbe stato un altro come lui.

In Argentina acquistò una villa a Isidro, prospiciente il Rio de la Plata, per 60 milioni e un terreno per 35. Chiamò la villa “Napoli”. Spiegò: “Il merito di questi acquisti è del Napoli perché ho guadagnato bene con la società azzurra”. Aveva già una fazenda a san Nicolas, dov’era nato, e l’aveva chiamata “Juventus”, acquistata con i guadagni nel club bianconero.

Erano tempi d’argentini geniali nel campionato italiano. Antonio Valentìn Angelillo, brillantina nei neri capelli, baffetti, vent’anni, arrivò in un’Inter d’affanni. Era il più bello del famoso terzetto della “cara sucia”. La faccia sporca dei goleador spudorati venuti dalla pampa.

Angelillo stregava i portieri e incapricciava i cuori delle donne d’amore. Al Mago Herrera non piacque l’artillero argentino che faceva mattino al tabarin. Incantato Antonio Valentìn Angelillo dai biondi capelli di una bresciana da night. Una passione improvvisa tra ginger al seltz. La travolgente storia con Ylia Lopez, appellativo d’arte della bresciana notturna che all’anagrafe dei nomi si chiamava umilmente Attilia Tironi.

Con furore fu cacciato dal Mago l’artillero d’amore. Il presidente Moratti, cuore grande e Angelo nerazzurro, fece un dono gentile al giocatore perduto. Andando Angelillo alla Roma, procurò una scrittura alla sua donna fatale perché seguisse il suo uomo in un night della capitale. C’erano storie così ai miei tempi.

(9 – continua)

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