ilNapolista

Roma si riscopre nordica: Dzeko resta, fa il capitano e guai a chi grida al traditore

Aveva detto sì al Chelsea, poi all’Inter, infine ai bianconeri. Le sue sliding doors sono rimaste sempre chiuse. Ora lo raccontano felicissimo: alla Juve ha segnato il suo primo gol in Italia

Roma si riscopre nordica: Dzeko resta, fa il capitano e guai a chi grida al traditore
(Hermann / KontroLab)

Il dibattito a Roma verte sull’eventuale concessione popolare del privilegio di indossare la fascia da capitano. Se lo rimbalzano le ineffabili “radio romane”, e la Gazzetta dello Sport gli dedica persino una paginata. Il fatto che Edin Dzeko non sia già legato ad una pira, per farne una bruschetta, va rilevato con stupore. Ma come… Roma, la “piazza calda” che ha ruminato nel dramma campioni e allenatori barricati nelle ville di Casal Palocco. La città che brucia d’amore e odio e altre isterie ha assorbito il terzo “tradimento” di Dzeko tutto sommato con una certa maturità. Fascia sì o fascia no? Tutto qui?

Edin Dzeko domenica sera giocherà da titolare Roma-Juve con la consapevolezza che l’avrebbe giocata comunque: con la maglia giallorossa o con quella a strisce bianconere.

Nella terra di mezzo nella quale il mercato burlone lo ha lasciato, la qualità della vita è pessima. Eri il capitano della Roma, avevi detto sì alla Juve, poi salta tutto e ti ritrovi ancora capitano della Roma in campo contro la Juve. Peraltro subito, alla prima giornata post-trauma. Ti guardano tutti storto, come il ragioniere col labbro leporino nella scena della caccia del Secondo Tragico Fantozzi. Eppure, di nuovo, il problema è la fascia. Quella di Giannini, di De Rossi, di Totti, di Dibbbba. Come scrive su Twitter il giornalista politico del Corriere della Sera Fabrizio Roncone:

Ma è proprio dalla lettura dei commenti al tweet che vien fuori una Roma che non t’aspetti, quasi nordica. La tifoseria che da sempre coccola la retorica del “core”, che per poco non trasforma l’addio di Totti in lutto cittadino, che celebra la nonna di Florenzi mentre lascia andar via solitario in un finger d’aeroporto il capitano di terza generazione, ora perdona. Ragiona. Pondera. Rottama le questioni di principio. Così:

O così:

“Lo voglio” Dzeko l’aveva già detto al Chelsea nel gennaio 2018, e all’Inter nell’estate 2019, prima che alla Juve. Ma non aveva mai nemmeno detto “non voglio”: non voglio restare alla Roma, le parole che avrebbero segnato il solco della rottura.

No, Edin Dzeko s’è salvato abbracciato ad un concetto straniante quando in ballo c’è la fede, la maglia, l’onore e altri artifici retorici: il professionismo. Dzeko è un professionista. E gli viene riconosciuto, per curriculum e gol, così tanto che nemmeno l’accostamento alla Juve ne ha scalfito il portamento regale.

Quei 106 gol in 222 partite sono probabilmente il discrimine tra il suo caso e quello che l’ha innescato: Milik. Che a Napoli s’è fatto incastrare dai rancori, è rimasto da “male assoluto“, riuscendo nell’impresa di farsi schifare contemporaneamente dai napoletani che non gli perdonano il sì alla Juve, dai romanisti feriti dal sentirsi seconda scelta, e dagli juventini che per colpa sua si ritrovano in rosa Morata invece di Dzeko.

Il bosniaco è un caso di studio, persino per la medicina legale. Non ha mai fatto valere il “mal di pancia”, il disturbo tipico della categoria. Anzi, ancora adesso, lo raccontano “giocatore felicissimo”, che mai avrebbe voluto lasciare la capitale, e che solo le logiche del mercato lo avevano convinto ad accettare Torino. Dalla capitale al capitalismo. La narrazione che l’accompagna è quasi inquietante.

E’ passato da “lampione” a capitano per strattoni. Ma ha resistito in maniera ammirevole, e in cuor suo il difficile pubblico romano glielo riconosce. Nell’agosto del 2015 fu accolto a Fiumicino come una rockstar, diventando in pochissimo tempo il profeta della sventura: la Roma di Garcia aveva smarrito il gioco e lui circumnavigava l’area per puro spirito di sacrificio. Con Spalletti il punto più basso: finisce riserva del tridente leggero Perotti-El Shaarawy-Salah. È la fase “Edin Cieco” in cui sbaglia gol come lo sgraziato adolescente che esordiva con poca identità nello Željezničar di Sarajevo. Uno che è uscito da quel tunnel a Roma lo rispettano come chi s’abbraccia il calvario del traffico bloccato sul Raccordo Anulare ogni santa mattina. Dzeko diventa uno di loro. E poi capocannoniere di Serie A ed Europa League segnando 39 gol in 51 partite (più 15 assist), invece di deviare in Premier alla corte di Antonio Conte.

Le sliding doors di Dzeko sono rimaste tutte chiuse, ed è questo il motivo per cui domenica è ancora lì, piantato nella formazione titolare della Roma come se nulla fosse. Roma-Juve è un nodo della storia: il 30 agosto 2015, all’Olimpico, Dzeko gioca la sua prima partita in giallorosso e segna il suo primo gol italiano proprio alla Juve, nell’ultima stagione di Alvaro Morata in bianconero. Cinque anni dopo ci risiamo. Stessi protagonisti.

Fonseca – dopo averlo “salvaguardato” non schierandolo contro il Verona (un trattato di masochismo) – non ha proprio dubbi: Dzeko ha il compito stavolta di salvargli la panchina dalle brame di Allegri. Il mercato, almeno per lui, ha la volatilità delle beffe. Altri al posto suo avrebbero bruciato carriere e sperperato considerazione. Il professionista ha battuto il sistema, e domenica sera contro la Juve indosserà la fascia di Dibba, Giannini, Totti e De Rossi. La fascia di Dzeko.

ilnapolista © riproduzione riservata