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«Questa non è una influenza. È una malattia di cui si muore. Anche i giovani» 

Sul CorSera intervista a Giuseppe Remuzzi direttore del Mario Negri: «I primi casi a dicembre, ma anche noi studiosi eravamo convinti che il virus non fosse così aggressivo»

«Questa non è una influenza. È una malattia di cui si muore. Anche i giovani» 

Il Corriere della Sera intervista Giuseppe Remuzzi, direttore dell’istituto di ricerche farmacologiche Mario Negri. Racconta qual è la situazione all’ospedale di Bergamo, il Papa Giovanni XXIII di Bergamo e il suo stato d’animo di fronte al dilagare del Covid-19.

«Mi sento come un soldato che perde i suoi compagni. Un mio amico dottore ricoverato in pneumologia in situazione critica, altri due intubati. Quando vedi queste cose, con le persone che sono cresciute con te in questi anni, che cadono mentre il nemico avanza, ti viene da piangere, non ce la fai. Mentre parliamo vedo le ambulanze che continuano a passare, e su ogni ambulanza c’è un essere umano che non respira. Ecco come sto».

A Bergamo sta succedendo qualcosa di enorme, dice. I morti continuano ad aumentare.

«Due martedì fa erano tre morti. Sette giorni dopo, 33. Oggi, 58. Avranno anche avuto altre malattie, ma senza virus sarebbero ancora qui. E le polmoniti di questa settimana sono più gravi di quelle della settimana scorsa».

Una spiegazione c’è.

«La gente è terrorizzata di andare in ospedale. Resta a casa finché ce la fa, con tachipirina e antibiotico. Il 113 ci porta solo quei malati che proprio non ce la fanno a respirare».

Il coronavirus è mutato, non si riesce a curare i malati.

«Questa non è una malattia benigna. Non è una influenza. È una malattia di cui si muore. Non solo anziani, ma anche giovani. E ha colpito molte più persone di quante siamo in grado di trattare».

Le prime polmoniti gravi si sono registrate a Nembro e Alzano a dicembre, racconta. Ma i medici non hanno capito di fronte a cosa si trovavano.

«Già a dicembre i medici di base di quest’ultimo comune si sono trovati di fronte a polmoniti mai viste. Ma hanno pensato che fosse una evoluzione del ceppo annuale dell’influenza. È difficile capire che sei di fronte a qualcosa di nuovo se non l’hai mai visto prima. Anche noi studiosi eravamo convinti che il virus non fosse così aggressivo».

La moltiplicazione dei contatti tra le persone ha fatto il resto.

«Da fine ottobre, quando il virus è comparso anche in Europa, fino a gennaio, quando ce ne siamo accorti, c’è stato uno scambio continuo di milioni di persone. Con la Cina, con la Germania, con tutto il mondo. Chissà chi è andato, chissà chi è venuto. Il paziente zero non ci serve. Adesso ci servono posti in rianimazione».

L’unica cosa da fare, dice, sarebbe stata una zona rossa, come è avvenuto a Codogno. Subito. Il non averlo fatto ha peggiorato le cose. E adesso anche il personale medico si ammala, scarseggia.

«Nelle ultime due settimane abbiamo formato 1.500 infermieri e medici. Abbiamo un disperato bisogno di personale. Abbiamo oculisti e dermatologi che stanno imparando l’assistenza respiratoria».

E ammette di vivere nel terrore che il virus possa colpire anche lui. Lo stesso terrore che attanaglia tutti. Se dovesse succedere, dice,

«Direi a chi mi assiste di intubare un ragazzo, e non me. Io ho settant’anni».

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