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Negli ospedali di Bergamo: «Prima i malati Covid facevano mille domande. Ora stanno in silenzio»

Su Repubblica reportage tra i medici: «Restano a occhi aperti, temono che chiuderli significhi non risvegliarsi. Noi siamo disarmati, non abbiamo la cura»

Negli ospedali di Bergamo: «Prima i malati Covid facevano mille domande. Ora stanno in silenzio»

Su Repubblica un lungo reportage dall’ospedale Papa Giovanni XXIII di Bergamo. Un racconto crudo e doloroso, reso attraverso le parole dei medici impegnati in prima linea nella guerra contro il virus. Raccontano l’orrore.

«Mai viste tante barelle piene di corpi nei corridoi e tanti malati morire senza dire una parola. Sono vecchio: da studente pensavo che la medicina fosse più forte».

Il medico del pronto soccorso, Renata Colombi:

«Non si può parlare del futuro quando senti che il presente è un respiro che ancora ti sfugge di mano. Gli economisti fanno conti impossibili da seguire, i Grandi fissano la mascherina dietro le orecchie e parlano con le certezze di equilibri che sappiamo travolti. A me sembra onesto non smettere di guardare il carico rovesciato dalle ambulanze e quello stivato dai camion militari in marcia verso i forni crematori».

Medici che si trovano di fronte a scelte terribili, ogni giorno. Lo racconta il primario Roberto Cosentini.

«Il 17 marzo siamo arrivati a 102 malati in attesa di una macchina per respirare. Adesso siamo stabili, tra 40 e 60. Tutti gravi però, molti giovani, gli altri non vanno a prenderli. La data di nascita condanna a morire in casa, spesso da soli».

I malati Covid hanno tutti “facce bianche ridotte a due enormi occhi neri”. Non parlano. La dottoressa Patrizia Trivella racconta:

«Prima i malati chiedevano. Quando andrò a casa, dove mi mandate, cosa ho, cosa mi date, cosa mi fate, quando possono venirmi a trovare. Bene, adesso basta. Solo silenzio e la paura in fondo allo sguardo. Si affidano a noi, come se il virus facesse tornare bambini».

Malati soli, senza neppure il conforto dei parenti. L’infermiera Elisa:

«I parenti non possono restare vicini. Ci chiedono di consegnare ai nonni i disegni dei nipoti. Ci passano biglietti pieni di cuori. Vogliono che i malati sappiano che loro li amano. Un figlio mi ha scritto su un foglio il testo di Azzurro di Celentano. L’ho cantata sottovoce nell’orecchio di suo padre. Era intubato, non poteva parlare. Ha capito e i suoi occhi si sono riempiti di lacrime».

Fabrizio Fabretti:

«Il problema è che nella shock-room i numeri non calano. Adesso arrivano persone che ricordano i salvati dalle valanghe, o gli annegati. Hanno paura perché ormai sanno che sopravvivere non è un fatto fisico, o anagrafico. Appesi a un filo, cercano di non perdere conoscenza. Restano a occhi aperti, temono che chiuderli significhi non risvegliarsi. Per un medico non conoscere la malattia e non avere una cura è come essere un soldato al fronte, di notte e disarmato».

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