Ad agosto ha vinto la Transcontinental Race, 4.000 km attraverso l’Europa, battendo 200 maschi e 40 donne. Studia per fare l’oncologa pediatrica, anche mentre pedala
Fiona Kolbinger quando batte gli uomini mangiando snickers cioccolatosi, pensa solo ai numeri. Conta. Pedala e conta. Accumula chilometri mentre in maniera del tutto naturale e inconsapevole scrive una incredibile storia di sport di genere. Di quel genere che poi, alla fine del racconto, il fatto che la protagonista sia una donna diventa persino un dettaglio.
Fiona Kolbinger ha 24 anni e all’alba del 6 agosto scorso è passata sotto un traguardo, a Brest, in Bretagna, dopo aver percorso in bici 4mila chilometri in dieci giorni. C’è arrivata per prima a quel traguardo, circa 12 ore prima che la raggiungesse il secondo: un uomo. E poi tutti gli altri: altri 200 maschi e 40 donne. Ha vinto la Transcontinental Race, e mai una donna c’era mai riuscita prima. Figurarsi una dilettante, che batte uomini. Uomini professionisti.
Avete presente il Tour de France? Ecco, la Transcontinental Race è una gara di endurance, che si svolge in un’unica tappa europea che da sola è più lunga di tutte le ventuno tappe del Tour. E solo a spiegarne il regolamento viene una certa stanchezza: si parte tutti insieme e si arriva al traguardo posizionato dall’altra parte del continente, passando per quattro punti obbligatori. Il resto sta tutto all’atleta: che strada percorrere, quando fermarsi per mangiare e dormire o riparare la bici, le provviste da trasportare… unico limite: non accettare aiuti esterni.
È una gara di consunzione e resistenza, mentale ancor più che fisica, totalmente in solitaria visto che già dopo pochi chilometri non esiste più un gruppo ma solo un rosario di ciclisti che si sgrana per l’Europa. Ti fermi a dormire pensando che l’altro non lo farà, e molte cose le fai senza mai smontare dalla sella. Caldo, freddo, vento e pioggia, tutto riassunto in dieci giorni: due dei passaggi obbligati, per esempio, prevedono la salita fino ai 2.474 metri del Passo del Rombo, tra Austria e Italia, e ai 2.645 del Col du Galibier, in Francia.
Il resto della storia, i dettagli, sono sceneggiati dalla Marvel. Tanto per cominciare, prima di stravincere questa “garetta”, ha partecipato solo a una Londra-Edimburgo-Londra anche se per allenarsi dice di aver fatto 5 anni fa un giro da Heidelberg a Stoccolma, 1.700 km affrontati senza alcuna preparazione: “Non avevo un Gps, mi muovevo con le carte stradali, e indossavo le mie normali mutandine sotto gli shorts tecnici”.
È tedesca, e nella vita studia per diventare oncologa pediatrica. “Nella vita” significa “anche mentre pedala”. Un compagno di allenamento ha raccontato che nelle salite più lunghe e noiose tirava fuori un foglio e ripassava per un esame.
Il diario della gara è da brividi: il suo gps l’ha segnalata di passaggio in Bulgaria, Serbia, Croazia, Slovenia, Austria, Italia, Svizzera e Francia. In un giorno ha percorso quasi 500 chilometri, con una media di circa 15 ore al giorno in sella, con soste per riposare da non più di 3-4 ore. Velocità di crociera sopra i 20 km orari, con bagagli spesso zuppi di pioggia.
Poi un giorno, l’ottavo, arriva al quarto e ultimo punto di controllo all’hotel Milan, nel paesino francese di Le Bourg-d’Oisans, e dopo 2.500 chilometri di gara entra, vede un pianoforte, si siede e suona. Così:
Fiona Kolbinger, leader of #TCRNo7 and…pianist!#TCRNo7cap66 pic.twitter.com/NEwaRtJLWC
— The Transcontinental (@transconrace) August 3, 2019
Si nutre per tutta la gara di cibi frugali, da supermarket, sneackers soprattutto. Mica le barrette energetiche da alimentazione nello spazio, no, proprio lo spauracchio delle mamme: le merendine.
“Ho provato a restare sul più sano possibile, ma prendevo le cose più veloci da mangiare e da comprare nei market. Alla fine in dieci giorni avrò mangiato una cinquantina di merendine”
Le hanno chiesto, piuttosto insistentemente, se durante tutte quelle ore di fatica in solitaria la aiutasse pensare ai suoi cari, agli affetti. Macché…
“Ho passato un sacco di tempo a giocare con i numeri, nella mia testa: la distanza da una cittadina all’altra, calcolavo i chilometri percorsi, li traducevo in miglia, ricavavo la velocità. La verità è che avevo la testa piena di numeri, e molto spesso anche totalmente vuota”.
Perché in un’impresa del genere, il punto, forse è proprio quello: la libertà fisica e mentale che ne deriva. Estenuante e inebriante.
“Quando pedalo mi sento libera, semplicemente libera. Mi sento viva. Ho attraversato luoghi meravigliosi, avendo la libertà di farlo come volevo. Il più bello forse è la Bulgaria, mi ha davvero sorpreso. E poi la Repubblica Ceca, in Boemia: è tutta colline, ha un sacco di foreste, paesaggi splendidi e il cibo è spettacolare”.
Devono fare delle merendine buonissime, in Boemia.