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Con Ancelotti il tempo dei titolarissimi è finito. Nel Napoli non tutti vogliono rassegnarsi

Il triennio del posto fisso non esiste più. C’è ancora qualche resistenza al metodo Ancelotti. Che preferisce la persuasione, ma che all’occorrenza sa usare anche la percussione

Con Ancelotti il tempo dei titolarissimi è finito. Nel Napoli non tutti vogliono rassegnarsi

 

Un giocatore che mette le proprie qualità al servizio della squadra è un campione, altrimenti rimane un giocatore

Una delle frasi che Carlo Ancelotti ama ripetere, è una citazione di Sacchi: «I calciatori puoi convincerli in due modi: o per persuasione, o per percussione». Proprio recentemente, al festival dello Sport di Trento, Van Basten ha ricordato la celeberrima panchina di Cesena. Terza giornata del campionato 1987-88, il primo dell’era Arrigo. Sacchi non aveva gradito alcune dichiarazioni rilasciate dall’olandese dopo la sconfitta interna con la Fiorentina. A Trento, Van Basten ha spiegato che in Olanda era normale per un calciatore parlare del modo di giocare della propria squadra, non sapeva che qui da noi le cose andassero diversamente.

Ce ne sarebbe anche un altro di esempio formativo. Quando, era il 1985, la partita Lazio-Milan venne rinviata per neve. Si giocò l’indomani. E al momento di distribuire le maglie, Liedholm – allenatore dei rossoneri – saltò Incocciati (che era in formazione il giorno prima) e diede la 11 a Virdis. Il buon Peppe protestò: «Ma come, mister? Ieri ero in formazione». «Appunto – lo gelò Liedhas – tu jocato già ieri. Oggi joca Virdis». Che tra l’altro segnò il gol decisivo.

E parliamo degli anni Ottanta, quando le rose erano striminzite rispetto ad oggi. È in questa cultura, in questo modo di vedere e sentire il calcio che è cresciuto Carlo Ancelotti. Da secondo di Sacchi, ai Mondiali, assistette e nemmeno si stupì più di tanto quando, per l’espulsione di Pagliuca, il ct tolse dal campo Baggio per far posto a Marchegiani.

Il posto fisso non esiste. Non esisteva all’epoca, figuriamoci oggi. Anno 2019, con rose che sono il doppio rispetto a trent’anni fa. Che la musica fosse cambiata, Ancelotti a Napoli lo ha fatto capire dal primo momento. Ricordiamo ancora oggi lo stupore con cui venne accolta la formazione che mandò in campo lo scorso anno a Torino alla quinta giornata: Ospina, Hysaj, Albiol, Koulibaly, Luperto, Callejon, Rog, Hamsik, Verdi, Mertens, Insigne. Per inciso, il Napoli vinse 3-1. Quella formazione fu uno shock per chi era reduce da tre anni di formazione fondamentalmente inamovibile, tranne rarissime eccezioni. Con un gruppo di dodici tredici calciatori fortemente motivati e responsabili delle sorti del Napoli. Sicuri di giocare la domenica, nel bene e nel male. E il resto a fare da comparsa. Fu uno shock sia per il cosiddetto ambiente ma anche per gli stessi calciatori che per tre anni non hanno mai avuto il pathos della formazione. Una sera, dopo Palermo-Napoli, Sarri disse: «Con me Hamsik gioca pure se è in rianimazione». Ecco, con Ancelotti no.

Ne abbiamo scritto molte volte. Sarri si era iscritto nel solco dei titolarissimi di Mazzarri. Sacrificò una Champions e una Europa League per il sogno scudetto. E in tanti arrivarono in primavera praticamente scoppiati, ricordiamo Mertens ma potremmo citarne altri. Ancelotti ha decisamente un altro metodo. E non lo ha mai nascosto. Per lui, uno dei punti di forza del Napoli è la omogeneità della rosa. Non c’è un Ibrahimovic, sarebbe stupido negarlo. Ma ci sono tanti ottimi attaccanti. E il discorso vale per ogni ruolo. Il Napoli, tranne probabilmente Koulibaly, non ha top player. Fabian Ruiz potrebbe diventarlo. Ma ha tanti giocatori forti, e quest’anno ha una rosa ancora più ricca.

Il punto è che quando si raggiunge un determinato status, è difficile essere disposti a fare un passo indietro. Dopo un anno di gestione Ancelotti, non tutti gli ex titolarissimi vogliono rassegnarsi al cambiamento. Non sono abituati ad accettare decisioni che mettano in discussione il loro status. Non è mai accaduto per tre anni. Non vedono perché le cose debbano cambiare.

Perché – è un concetto da non dimenticare –  a Napoli non è stato attuato il metodo Conte. Non c’è stato un repulisti. Un azzeramento. È stata preferita l’integrazione, dopo un primo anno in cui della vecchia squadra non è stato toccato quasi nulla. Probabilmente il repulisti non era nemmeno ciò che l’allenatore voleva. Ha sempre considerato la diversità un arricchimento. Gli spogliatoi non hanno mai spaventato il leader calmo, anche perché non è nella sua natura avere un approccio o un atteggiamento contrappositivo. Alla percussione ha da sempre favorito la persuasione. E i calciatori lo hanno sempre ricambiato con dedizione, impegno oltre che affetto. In cambio, però, non c’è mai stato il posto fisso in squadra. Ancelotti, nel corso della sua carriera, ha sempre considerato un pre-requisito l’accettazione da parte dei calciatori delle decisioni dell’allenatore.

Ma la predilezione per la persuasione non vuol dire che il tecnico non sappia utilizzare la percussione. Sarà anche calmo, ma conosce benissimo i metodi e la tensione necessaria per farsi rispettare e far comprendere l’importanza del gruppo. La rivoluzione morbida ha incontrato qualche resistenza di troppo in chi credeva ed evidentemente tuttora crede che determinate gerarchie nel Napoli non potessero mai cambiare. Basterebbe dare uno sguardo al passato dell’allenatore, ricordare le sue squadre, qualche formazione in cui ha lasciato in panchina giocatori illustri. Quelli sì effettivamente top player.

Appena sabato scorso, in conferenza, ha lanciato un messaggio ben preciso: «Un giocatore che mette le proprie qualità al servizio della squadra è un campione, altrimenti rimane un giocatore». Difficile essere più chiari. L’indomani, contro il Verona, Mertens è andato in panchina senza fiatare (e senza mettere il broncio, anzi) e Insigne ha cambiato posizione in campo senza dire A. Sempre sabato, in conferenza, Ancelotti ha rivelato che il metodo Genk non è stato applicato soltanto a Insigne, è toccato anche a Younes. “Chi si allena male, finisce in tribuna. I miei giocatori lo sanno”. Il metodo persuasivo resta quello preferito, ma poi si fanno i conti con la realtà. E ad Ancelotti il principio di realtà non è mai mancato. Probabilmente dopo un anno di gestione, questi rigurgiti di resistenza non erano in programma. Ma non manca certo la terapia.

E tornando a un parallelo col passato, l’intervento di venerdì scorso di De Laurentiis ha ricordato le parole che Berlusconi pronunciò di Verona-Milan, quando bloccò sul nascere ogni velleità di ribellione anti-Sacchi. Fece capire che l’allenatore certamente sarebbe rimasto. La strada è tracciata e indietro non si torna. Prima lo si capisce, meglio è.

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