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Un po’ di memoria storica dopo lo psicodramma per la separazione tra Sarri e il Napoli

È stato un triennio meraviglioso ma con Ancelotti si compie un innegabile salto di qualità (tecnico oltre che d’immagine)

Un po’ di memoria storica dopo lo psicodramma per la separazione tra Sarri e il Napoli

Tante reazioni scomposte all’addio di Sarri

Nell’era dell’eterno presente da social network, purtroppo, la memoria storica è diventata sempre più un lusso, così come la necessaria conoscenza del passato per poter meglio decodificare il presente e affacciarsi con profitto al futuro.

Me ne sto rendendo conto in questi giorni, ancora una volta, grazie alle tante reazioni scomposte di buona parte dell’ambiente napoletano (moltissimi tifosi ma anche, più sorprendentemente, un bel po’ di addetti ai lavori) di fronte alla chiusura del rapporto lavorativo triennale (perché era un rapporto lavorativo, non altro) tra il Napoli e il suo bravissimo allenatore Maurizio Sarri e al contestuale arrivo sulla panchina azzurra per le prossime tre stagioni di un big assoluto come Carlo Ancelotti (e, al riguardo, ha ragione Demetrio Albertini, quando sul quotidiano “Il Mattino” di ieri ha affermato che è come se, tra i calciatori, gli azzurri avessero acquistato Leo Messi).

Ancelotti presunto uomo del sistema

C’è chi paragona istericamente Sarri a Maradona (confronto del tutto insensato), chi lo considera un innovatore assoluto dimenticando l’epocale portata rivoluzionaria (e i risultati simili) del furente Napoli a zona mista di Vinicio tra il 1973 e il 1976 (cioè negli stessi anni del calcio olandese), chi fa lo stesso con la “semina” e il decisivo cambio di paradigma avvenuti nel biennio di Rafa Benitez (con la squadra tipo del 2017-2018, non a caso, composta per nove undicesimi ancora da uomini già arruolati ai tempi dello spagnolo o addirittura acquistati da lui), chi vuole l’ottimo Maurizio vittima di misteriose congiure di palazzo, chi sostituito perché inviso ai “poteri forti”.

Chi infine si riferisce ad Ancelotti come a un uomo appartenente a un fantomatico “sistema” glissando strategicamente sulla sua conclamata anti-juventinità (messa nero su bianco, per esempio, nella bella autobiografia “Preferisco la coppa”, come qui a pagina 147: “[…] Da maiale che non poteva allenare, Torino non mi piaceva. Troppo triste, lontana un paio di galassie dal mio modo di essere. Indietro Savoia, arriva il ciccione dei tortellini. La Juventus era una squadra che non avevo mai amato e che probabilmente non amerò mai, anche per l’accoglienza che qualche mente superiore mi riserva tutte le volte che torno. Per me è sempre stata una rivale, anche da ragazzino, quando ero interista fin nel midollo…”).

L’addio era scritto

Da parte mia, invece, m’è sempre parso piuttosto pacifico che, sia in caso di scudetto che di mancato successo, la comunque meravigliosa esperienza di Sarri all’ombra del Vesuvio non sarebbe andata oltre il termine di questa stagione, come fatto chiaramente intendere, d’altra parte, dal tecnico toscano-partenopeo nel corso dei mesi, spesso in maniera anche piuttosto esplicita e colorita. Al di là delle frizioni continue col presidente Aurelio De Laurentiis e delle nette differenze di vedute su alcune questioni (per esempio, la gestione della rosa), ho sempre avuto la sensazione chiara, infatti, che il famoso “patto scudetto” di luglio 2017 fosse da considerarsi una sorta di “all-in” sulla Serie A 2017-2018, una specie di “o la va o la spacca” che, in tutti i casi, avrebbe lasciato strascichi difficilmente superabili e avrebbe diviso la recente storia azzurra tra un “prima” e un “dopo”. Come poi è accaduto, in effetti, con esiti ancora più violenti per il morale di squadra, tecnico e ambiente a causa della tremenda delusione derivante alla consapevolezza di essere stati in qualche modo privati di un risultato che sul campo il Napoli di quest’anno avrebbe ampiamente meritato e che, probabilmente, fattori extra-tecnici hanno impedito che si concretizzasse.

Il post Fiorentina-Napoli

Nei giorni immediatamente successivi a Inter-Juventus e Fiorentina-Napoli, l’ambiente azzurro è letteralmente imploso su se stesso. E il giorno dopo l’ultimo match di campionato le drammatiche dichiarazioni attribuite a capitan Marek Hamsik dal giornale slovacco “Pravda” (“Quest’anno abbiamo creduto davvero nel titolo. Mi dispiace per i nostri tifosi, che meritavano questo trionfo. Li ringrazio per il loro sostegno. Lungo tutta la mia esperienza a Napoli, ho dato davvero tutto. Forse è tempo che le nostre strade si dividano. Mi piacerebbe provare qualcosa di nuovo”) danno l’esatta misura di quanto i frammenti di un sogno andato in mille pezzi dopo mesi di impegno quotidiano e totalizzante – e, nel caso di Marek, di anni di assoluta immedesimazione emotiva e interiore con la squadra e con la città: perché, al di là dei cambi in panchina, quello del decennio 2007-2018 è il Napoli di Hamsik – possano essere difficili da ricomporre.

La bomba atomica Ancelotti

A meno di non decidere di sganciare una bomba atomica sul calcio italiano, come ha improvvisamente fatto – con tempismo scenico da fuoriclasse – il presidente De Laurentiis, chiudendo l’ingaggio di Ancelotti in 48 ore (dopo mesi di lavoro sotterraneo, ovviamente), spiazzando i media nazionali (che fanno ancora oggi fatica a decodificare l’evento), cancellando la Juventus neo-campione d’Italia dalle prime pagine dei quotidiani e dei notiziari sportivi e, soprattutto, evitando di ritrovarsi di lì a poco con un pericolosissimo cerino in mano nel momento in cui Maurizio Sarri avesse firmato col Chelsea – come si vocifera da mesi – con la società azzurra costretta a un accordo d’emergenza con il Giampaolo o il Semplici del caso, ottimi tecnici, ma opzioni che – in questo preciso momento storico – avrebbero ulteriormente depresso l’ambiente azzurro e, probabilmente, avviato un fuggi fuggi generale dei big azzurri (a “patto scudetto” concluso) verso altri lidi, eventualità che la semplice presenza di uno tra i più titolati allenatori della storia del calcio sulla panchina del Napoli – col conseguente, inevitabile step verso l’alto che ne deriverà – potrà quantomeno rimettere in discussione (oggi Hamsik ha ammesso di aver già ricevuto una sua telefonata).

Mettere gli eventi nella giusta prospettiva

Una maggiore consapevolezza del passato, come sottolineavo in apertura, avrebbe impedito, dunque, il ridicolo e un po’ triste psico-dramma di questi giorni e messo gli eventi nella loro giusta prospettiva. Avendo letto qualche libro in più o visto qualche partita in più, infatti, qualcuno avrebbe potuto ricordare che già nel 1974-1975 il Napoli a zona mista di Vinicio – che arrivò in panchina da idolo assoluto della tifoseria, dopo aver indossato la maglia azzurra già da calciatore per 152 partite con 69 gol segnati! – fece la rivoluzione tattica in Italia e arrivò secondo a soli due punti dalla Juventus, a causa dei miracoli di Zoff e del celeberrimo gol di Altafini nello scontro diretto di Torino (Vinicio andò via a fine triennio per frizioni con Ferlaino); oppure che già il Napoli di Benitez giocava abitualmente nella metà campo avversaria, con la linea difensiva schierata a centrocampo e un pressing immediato sugli avversari in possesso palla; o ancora che il calcio proposto in carriera da Carlo Ancelotti è tutto tranne che sparagnino, con un mix di equilibrio tattico e libertà concessa ai singoli e con una proposta di gioco votata comunque a segnare un gol in più rispetto all’avversario.

Insomma, il triennio sarriano all’ombra del Vesuvio è stato meraviglioso e ha offerto con continuità spettacoli calcistici di livello altissimo, portando a piena maturità tanti giocatori e offrendo insperate seconde carriere a molti altri. Ma con Carlo Ancelotti sulla panchina del Napoli si compie un salto di qualità (anche tecnico, oltre che d’immagine) innegabile, per provare a percorrere quell’ultimo gradino che – come sottolineato più volte dallo stesso Maurizio Sarri – è sempre il più difficile da completare: quello che, al termine di un impetuoso percorso di crescita, separa il secondo posto dal primo.

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