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Lo sport e le discriminazioni di genere

Il convegno che si è svolto alla Federico II su Genere e Sport con studi, approfondimenti e testimonianze

Lo sport e le discriminazioni di genere
La pallavolista transessuale Tiffany Pereira

Il video di Rosolino

“Sport e donne, tra opportunità e disuguaglianze” e “Omofobia ed Eterosessimo sportivo”. Sono stati i due momenti del convegno su Genere e Sport che si è svolto ieri presso il dipartimento di Scienze Sociali dell’Università degli Studi di Napoli Federico II. Una data non a caso visto che era la giornata mondiale contro l’omofobia.  Convengo organizzato dai professori Lica Bifulco e Francesco Pirone, cui sono intervenuti la direttrice di dipartimento, la professoressa Enrica Amaturo, e il professore Fabio Corbisiero, coordinatore scientifico dell’Osservatorio LGBT, nonché docente di Sociologia del Territorio, con un video di  Massimiliano Rosolino.

La carriera delle donne nello sport

Bifulco ha ricordato che in genere si considera lo sport come un’attività legata semplicemente alla performance, alle capacità atletiche e al talento, dimenticando che categorie sociologiche come la classe, il genere o l’etnia sono fondamentali per comprendere lo sport e il suo impatto sociale. E spesso entrano in gioco tante forme di disuguaglianza, legate alle risorse economiche, al potere, al prestigio. Lo sport al femminile risulta essere uno degli ambiti particolarmente stimolanti da analizzare, tenendo conto almeno di due questioni connesse: la parità d’accesso e le ideologie sottese.

Se nel corso degli ultimi decenni c’è stato un incremento della partecipazione sportiva femminile, bisogna poi comunque analizzare più nel dettaglio aspetti quali la differenza tra accesso alla pratica dello sport di base e le opportunità nello sport professionistico, la disuguale distribuzione di risorse e attenzione mediatica, le idee e gli stereotipi sulla mascolinità e la femminilità legati alle diverse discipline, e – non da ultimo – la disparità d’accesso ai ruoli dirigenziali o di tecnici d’alto livello nel mondo dello sport. Una forma di disuguaglianza, quest’ultima, connessa a dimensioni concrete del potere a cui difficilmente si dedica la dovuta attenzione.

Francesco Muollo, storico interessato allo sport e al legame tra questo e la costruzione del corpo, ha poi ricordato come dagli anni successivi alla prima guerra mondiale le donne hanno avuto un nuovo approccio al mondo dello sport, avendo la possibilità di entrare in contatto con sport che in precedenza erano relegati esclusivamente agli uomini.

Il peso della cultura maschilista

Nonostante questa “apertura”, però, le donne hanno ricevuto trattamenti differenti rispetto agli uomini a causa di presupposti fisici e disuguaglianze di genere che hanno influito sulla scalata verso la conquista del diritto allo sport. Spesso è anche la cultura a giocare un ruolo decisivo. Come ha raccontato Italo Palmieri, dirigente della società sportiva Napoli Calcio femminile e maschile, meglio nota come Napoli Carpisa-Yamamay, ci sono alcuni ambiti sportivi – come appunto quello del calcio – prettamente maschilisti e casi eclatanti in cui il binomio “calcio e donne” (o “sport e donne”) è considerato un binomio impossibile ed è spesso vittima di stereotipi. Stereotipi che, come hanno illustrato Francesca Dragotto e Annalisa Cassarino, linguiste dell’Università degli Studi di Roma “Tor Vergata”, vengono trasmessi attraverso differenti canali comunicativi, canali che diventano a tutti gli effetti portatori di discriminazioni.

La schermitrice Boscarelli

Tra i relatori c’era anche Francesca Boscarelli, schermitrice della nazionale italiana e del Centro Sportivo Esercito, che ha raccontato della sua esperienza e delle difficoltà che ha vissuto in prima persona, ma che tutte le donne possono incontrare nel complesso mondo dello sport. Un ambito che, purtroppo, offre terreno fertile per falsi miti, discriminazioni e disagi. Come ha raccontato l’atleta beneventana, molto spesso i disagi – come, ad esempio, la pausa momentanea dell’attività dovuta alla maternità o le difficoltà legate alla sussistenza per una atleta a tempo pieno – vengono scarsamente razionalizzati ed è complesso tener testa a situazioni di questo tipo che possono, però, essere superate attraverso un buon gruppo sportivo, considerato elemento centrale per lo sport.

La testimonianza di Daniela Falanga

Il professor Pirone ha introdotto la seconda sessione – dedicata all’omofobia e all’eterosessimo sportivo. Riprendendo i contributi esposti dagli ospiti della prima sessione, Pirone ha sottolineato che è necessario lavorare culturalmente sullo sport, che va considerato uno spazio pubblico importante. Ciò soprattutto se oltre alla concezione istituzionale che interpreta lo sport secondo una logica agonistico-disciplinare, si considera anche l’espressione pluralista dello sport, lo sport per tutti. Una dimensione della pratica sportiva che permette di andare oltre la semplice attività fisica, mettendo al centro ad esempio questioni come l’inclusione sociale, tema nodale dell’incontro.

Il primo intervento della seconda sessione è stato di Daniela Falanga, donna transessuale a cui la tematica dello sport è molto vicina, avendo praticato karate per molti anni. La sua testimonianza ha aiutato a comprendere le difficoltà che una persona transessuale può incontrare nel mondo dello sport, soprattutto perché le posizioni al riguardo sono molto contrastanti e di complessa articolazione.

Giochi per maschietti e femminucce

Antonello Sannino, presidente dell’Arcigay di Napoli, ha ripreso, invece, la questione delle differenze tra le discipline sportive. In un immaginario collettivo spesso troppo ingessato, così come ci sono giochi per bambine e giochi per bambini, esistono sport da maschi e sport da femmine. Ciò comporta il fatto che, in realtà, molto spesso non ci si senta liberi di indirizzarsi verso uno sport in base alle proprie inclinazioni, ma ci si possa sentire obbligati da standard sociali. Allo stesso modo, la difficoltà nel vivere la propria omosessualità negli ambienti dello sport può creare carriere sportive problematiche e anche abbandoni prematuri dell’attività.

Tuttavia, in tema di omofobia la nostra società si è modificata nel tempo, e non per forza in negativo. I risultati di studi e ricerche recenti presentati da Cristiano Scandurra, dottore di Ricerca in Studi di Genere e psicoterapeuta impegnato nella sezione antidiscriminazione del centro Sinapsi dell’Università degli Studi di Napoli Federico II, mostrano come la situazione appaia oggi più incoraggiante, sebbene rimangano alcune risacche omofobiche, ma anche un timore in parte eccessivo sull’entità del fenomeno.

La pallavolista transessuale

Alessia Tuselli, dottoranda di ricerca in Scienze Sociali, ha presentato invece un interessante studio sul rapporto tra sport e atlete transessuali, riprendendo il caso della pallavolista Tiffany Pereira de Abreu che nel 2016 ha completato la sua transazione e ora gioca nel campionato femminile di pallavolo, in A2. Al di là degli stereotipi con cui l’opinione pubblica ha accolto il suo esordio, la sua esperienza chiama in gioco questioni come il rapporto tra normative sportive, categorie di definizione del corpo e la necessità di equilibrio competitivo – fattore centrale nello sport. Il caso della pallavolista, ha ricordato Alessia Tuselli, può essere uno stimolo per nuove aperture al diritto alla pratica ma anche alla professione sportiva.

Interessante il principio secondo cui il livello di testosterone – da cui deriva anche il tono muscolare – è considerato l’unico indicatore medico-scientifico capace di stabilire se un atleta può giocare in una categoria maschile o femminile. Bisognerà poi capire, però, quanto la politica sportiva sarà in grado di rinegoziare le proprie categorie.

Quanto allora lo sport è realmente inclusivo? Questo, l’interrogativo della professoressa Giuliana Valerio che apre il suo intervento con uno spunto di riflessione. Se è vero che molte barriere nel mondo dello sport sono state abbattute – basti pensare alle paraolimpiadi – è anche vero che nell’ambito della comunità LGBT c’è ancora molto su cui lavorare.

È per questo che il convegno non ha una vera e propria chiusura, ma prende le forme di un’iniziativa che mira ad un rilancio. È un “arrivederci” per ritornare a parlare di uno sport che vada oltre le disuguaglianze.

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