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Spalletti ha messo in panchina le statue e ora la Roma vola e fa paura

Spalletti ha messo in panchina le statue e ora la Roma vola e fa paura

Tanto tuonò che, alla fine, piovve. Con la Roma, per la Roma. Ed ecco che, nel campionato dei grandi numeri e delle grandi serie positive, compare all’improvviso la squadra (diventata) di Spalletti. Sette vittorie consecutive, schiantata all’Olimpico la Fiorentina nello spareggio per il terzo posto. E Napoli nel mirino, a soli due punti in attesa della sfida di Sarri contro il Chievo. 

Questione di valori assoluti, di qualità dell’organico, ma anche di fortuna e sfrontatezza. La Roma, a inizio stagione, valeva poco meno se non quanto la Juventus. Gli acquisti di Dzeko e Salah, la conferma in blocco di tutti gli altri migliori. E poi un avvio in linea con le aspettative, con la vittoria casalinga contro la Juventus, alla seconda giornata, come momento di massima illusione. Quindi, la confusione assoluta di Garcia, tecnico preparato ma poco adatto, forse, a gestire i momenti negativi e il doppio impegno campionato-Champions. Era accaduto già l’anno scorso dopo la ripassata interna col Bayern: Roma spaurita e sempre, via via, più distante dagli standard di rendimento consigliati da una rosa di ottimo livello. Stessa storia quest’anno: il Camp Nou come luogo dell’orrore, il rendimento in campionato come specchio di una situazione esplosiva. Con, in più, il Napoli che scappa davanti, prima da solo, poi a braccetto con la Juventus. Poi pure le altre, a insidiare un terzo posto che per una squadra così era (è?) un obiettivo minimo: Fiorentina e Inter, ad esempio, oggi ricacciate indietro con la forza bruta di sette vittorie consecutive.

Luciano Spalletti pareva essere un palliativo, un medicinale di accompagnamento per tamponare fino alla prossima stagione. Si è invece rivelato una cura a tutti gli effetti, un principio attivo che ha curato le cause, non i sintomi. Con l’aiuto di un mercato di gennaio intelligente e fortunato: El Sharaawy e Perotti sono stati i due veri colpi di gennaio, contrariamente a ogni aspettativa. Il primo era reduce da un prestito al Monaco finito in disfatta totale, l’altro era il leader tecnico di una squadra sull’orlo della zona retrocessione. Insomma, come dire: vai in un tabaccaio a comprare le chewingum, ti ritrovi ad aver vinto la lotteria. Anche perché, nel frattempo, hai dato via Iturbe e Gervinho, retaggio di una gestione Garcia che non poteva proseguire. Ma, soprattutto, hai trovato Luciano Spalletti: realismo assoluto nell’analizzare la situazione, la sfrontatezza del caso-Totti, del caso-De Rossi e persino nel rapporto con Dzeko. Tutta gente che ieri, nel big match contro la viola, è rimasta a guardare. Per scelta o necessità, ma era comunque fuori. In un articolo pubblicato da calciomercato.com, si legge – in chiave negativa – che Spalletti «ha deromanizzato la Roma». È tutto vero ma dovrebbe essere letto, per i tifosi giallorossi, in chiave positiva. E ha vinto sette partite di fila, dopo un punto nelle prime due uscite, rivitalizzando non solo il gioco della squadra (che intanto, adesso, ha il miglior attacco del campionato con 59 gol) ma anche un’intera rosa che sembrava in crisi irreversibile. Si guardi Mohamed Salah pre e post-Garcia, per capire.

La Roma di oggi è la versione riveduta e corretta della prima Roma di Spalletti, quella che otto, nove anni fa, inventò Totti centravanti (Scarpa d’Oro 2007) e spaventò l’Inter di Mancini con Taddei e (Amantino) Mancini esterni e Perrotta finto trequartista, incursore più che fine dicitore dietro un’unica punta che in realtà non esisteva. E non esiste neppure oggi, con la delusione-Dzeko confinata in panchina e il ruolo di falso nueve affidato a un (ex) esterno offensivo con grandi qualità tecniche, Diego Perotti. Il tourbillion si ripropone con Salah ed El Sharaawy, esterni di gamba bravissimi negli inserimenti in zona gol. Scambi stretti, corridoi esterni e palla giocata sulla corsa: i tre gol di Roma-Fiorentina, a parte il tiro deviato dell’egiziano ex Chelsea, nascono tutti uguali, con un passaggio in profondità sull’esterno offensivo che poi, a seconda della posizione dei difensori avversari, sceglie se concludere l’azione in prima persona (il quarto gol, realizzato da Salah) o appoggiare sull’inserimento del compagno dal lato opposto (il gol di El Sharaawy e quello di Perotti). Oggi, non esiste un vero e proprio Perrotta, però. Spalletti ci aveva provato nelle prime partite di questa sua nuova avventua con Radja Nainggolan, poi è rientrato sulle sue scelte e ha deciso di impostare un centrocampo a tre con un uomo pronto ad avanzare e ad occupare lo spazio appena fuori l’area di rigore. Spesso Pjanic, più raramente Keita e lo stesso belga-indonesiano, che formano la cerniera davanti la difesa. Un po’ i Pizarro e i De Rossi di oggi, tanto per capirci. Più o meno, dunque, le stesse posizioni e gli stessi compiti di un decennio fa. Con qualche aggiustamento, contestualizzato a un organico diverso e perfetto per il 4-3-3, modulo già utilizzato da Garcia. Che, adesso, è solo un lontano ricordo.

Ora, i giallorossi sono a due punti dal Napoli e Spalletti predica calma e sangue freddo: «Bisogna restare con i piedi per terra». Difficile, dopo sette vittorie consecutive e una coppia di testa che ora non è più così lontana. Soprattutto per una Roma così, attesa ora dalla trasferta di Udine e poi da due partite che diranno definitivamente chi sono e chi potranno essere i giallorossi: il derby, e poi Roma-Iner. Potrebbe venir fuori un inatteso terzo incomodo. Occhio.

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