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L’eccezione Atletico Madrid: fatturato medio, vende i migliori ma ha Simeone nel motore

L’eccezione Atletico Madrid: fatturato medio, vende i migliori ma ha Simeone nel motore

Due Europa League, due Supercoppe Europee, una finale di Champions League raggiunta (e persa solo ai supplementari dopo aver mantenuto il vantaggio fino al 93esimo) e un titolo di Spagna. Se poi preferite la continuità, eccovi la terza stagione consecutiva nei quarti di finale di Champions League e quattro podi di fila in Liga considerando acquisito questo del 2016. Il palmarés recente dell’Atletico Madrid è semplicemente eccezionale, soprattutto in rapporto alla storia da “altra metà del cielo” che da sempre caratterizza i Colcheneros, seconda squadra in una città che ha espresso ed esprime da sempre il calcio di un club che si chiama Real Madrid. E come se questo non bastasse, c’è anche una storia abbastanza fresca sui risultati di fine anni Novanta e sul potenziale economico di base: mentre il Napoli di Novellino, nell’annata 1999/2000, saliva in serie A, i biancorossi di Madrid retrocedevano in Segunda. Nove anni dopo, a nove mesi dalla conquista della prima Europa League, il fatturato superava appena i 100 milioni di euro. Oggi, si ferma comunque a 187.

Nel frattempo, l’Atlético ha conquistato e vinto tutta quella roba lì.

Intendiamoci, innanzitutto. Il fatturato, per dirla à la Sarri, è un requisito fondamentale per poter essere competitivi sempre, e ai massimi livelli. Altrimenti, accanto ai casi isolati dell’Atlético e del Leicester (che comunque è 24esimo nella graduatoria della Deloitte Football Money League) parleremmo, magari, dell’Hertha Berlino campione di Germania o dello Sparta Praga vincitore dell’Europa League. Cosa che, basta leggere gli albi d’oro, non avviene. L’Atletico, quindi, è una bellissima eccezione. Che nasce da una sapiente alchimia tra ambiente, società e soprattutto allenatore. Sì, perché tutte i momenti fantastici avvenuti nei dintorni dello stadio Vicente Calderon, impianto da 54mila posti costruito nel 1961, sono da ascrivere al tecnico Diego Pablo Simeone.

Uno che in Italia conosciamo bene ma che a Madrid è una specie di totem: due esperienze nell’Atletico come calciatore, dal ’94 al ’97 e dal 2003 fino al 2005, fino all’assunzione come entranador nel giorno dell’antivigilia di Natale del 2011, in sostituzione di Gregorio Manzano. Colchoneros erano decimi in classifica, e Simeone veniva dalle esperienze in chiaroscuro sulle panchine di Catania e Racing Avellaneda. Chi scrive aveva “ammirato” la sfida al Cibali tra i rossoazzurri del Cholo e la Sampdoria di Cavasin, 13 marzo 2011. Cinque anni e tre giorni fa, la partita venne risolta da questo splendido gol al volo di Llama, con Simeone, sotto una pioggia battente, a correre sul prato per festeggiare una rete decisiva in chiave salvezza.   

Tre anni dopo quella partita in Sicilia, l’11 marzo del 2014, un Atletico Madrid che nel frattempo aveva vinto l’Europa League e la Supercoppa Europea 2012, schianta in casa il Milan di Seedorf per 4-1 e approda per la prima volta ai quarti di Champions, 17 anni dopo . 

Un lavoro incredibile, quello del tecnico argentino. Fatto di grandi intuizioni di mercato ma soprattutto di un’assoluta coscienza delle possibilità del club, sia tecniche che economiche. Sì, perché l’Atletico è una squadra che negli anni del Tiqui Taca e del gioco posizionale ha fatto proprie le sole armi con cui è possibile vincere pur non possedendo gli stessi mezzi degli avversari: aggressività, compattezza, furbizia. L’anno scorso, durante il doppio confronto contro la Juventus nel gironcino di Champions League, un tifoso bianconero sintetizzò così le sensazioni e le considerazioni tattiche che questa sfida gli suscitò: «Giocare 180 minuti contro l’Atletico Madrid farebbe bestemmiare chiunque. Non ti lasciano giocare, ti sfiniscono. Sono scostanti e irritanti». 

Vero. O meglio, anche questo è vero. L’Atletico di Simeone che vince la Liga nel 2014 e arriva, nello stesso anno, alla finale di Lisbona persa contro i cugini del Real Madrid solo ai supplementari, è una squadra soprattutto difficile da affrontare. Il Cholo la descrive in una frase: «Non sempre vincono i più bravi, ma quelli che lottano». Linee vicine, reparti stretti, concentrazione per undici undicesimi nel recupero palla e contropiede immediato con Diego Costa vertice alto dell’attacco a fare a sportellate con i difensori avversari mentre il resto della squadra viene in soccorso. Non sarà un calcio bello ma è redditizio ed è frutto di un adattamento a quello che è il contesto in piccolo, un organico pieno di calciatori carismatici e pronti a rispettare le consegne, e in grande, ovvero un campionato con due grandi squadre (economiche e tecniche) potenzialmente in grado di vincere tutte le partite con cinque gol di scarto, di cui almeno tre riservati alle lune bizzose di Messi e Cristiano Ronaldo.

L’Atletico del 2013/2014 è solo una versione della squadra pensata e costruita da Simeone. Già quello del 2012, che trionfa in Europa League in un’altra finale fratricida contro i baschi dell’Athletic Bilbao, è una squadra leggermente diversa perché c’è un centro di gravità assoluto, di rabbia e talento offensivi, che si chiama Radamel Falcao. 36 gol per lui in quella stagione da dio, di cui addirittura 12 in Europa League. La squadra gioca attorno a lui, ne esalta le qualità di bomber completo e lo lancia nel novero delle stelle di prima grandezza. Poi, per questioni e richieste economiche, è costretta a cederlo. Al suo addio, Simeone ricostruisce in maniera diversa la squadra e risponde con la promozione di Diego Costa, misconosciuto delantero brasiliano acquistato dai portoghesi del Penafiel e che ha girato tutta la Spagna in prestito mentre era di proprietà dei Colchoneros. L’Atletico diventa una squadra più organica, che gioca con e non solo per il suo centravanti. La rivoluzione è una dinamica ricorrente nella storia recente dell’Atletico, una squadra che studia da top club, gioca e vince da top club che però è costretta a vendere anno dopo anno i suoi fenomeni. Falcao, già detto. E poi lo stesso Diego Costa che al termine della stagione dei sogni (36 gol in tutto, come Falcao, tra Liga, Copa del Rey e Champions) lascia il Calderon insieme a Filipe Luis e va a fare il centravanti titolare del Chelsea di Mourinho. Storia di un anno e mezzo fa, che si è ripetuta questa estate: Mandzukic, acquistato per sostituire proprio Diego Costa, finisce alla Juventus. Lo seguono, nell’addio all’Atlético, Miranda (destinazione Inter) e Arda Turan, che firma per il Barça dopo dopo un’operazione da 34 milioni di euro. 

E quindi Simeone reinventa ancora l’Atletico intorno ai grandi calciatori stranieri che sono rimasti al Calderon (Griezmann, Godin e il portiere Oblak su tutti) e ai fedelissimi cresciuti nella cantera (Koke, Oliver Torres, Saul). A questi accoppia nuovi acquisti che sono (re)investimenti pesanti delle cifre incassate al calciomercato: il ritorno di Filipe Luis, il viola Savic e i tre grandi nomi per l’attacco: Jackson Martinez, Fereira Carrasco e Luciano Vietto. Di questi, solo il secondo sarà veramente utile: perché Martinez, nel frattempo, è già volato in Cina per la cifra record di 42 milioni di euro, e Vietto ha realizzato un solo gol in campionato, superato nelle gerarchie dal francese Griezmann trasformato in attaccante e dal redivivo principino Fernando Torres tornato nel frattempo “a casa” dopo la pessima esperienza milanista. 

Oggi, l’Atletico è (ancora) un’altra squadra: meno intensa, più tecnica, legata e a un gioco che è anche di fioretto e non solo di sciabola. La garra non manca ma il materiale tecnico a disposizione ha caratteristiche diverse e quindi richiede una lavoro diversa. Anche se poi, in un doppio confronto col Psv in Champions, il lasciapassare per i quarti di finale sono solo i calci di rigore dopo due match da zero a zero. Anche se poi, in realtà, tutto è cambiato quando invece è cambiato pochissimo: l’Atletico è la miglior difesa della Liga, appena 11 gol subiti in 29 partite, ma ha realizzato appena 45 gol. Che vogliono dire quarto reparto offensivo del campionato, a 39 e 38 gol di distanza da Real e Barça. Simeone è ancora Simeone, l’Atletico è ancora l’Atletico anche se in versione riveduta e corretta. 

La squadra madrilena potrebbe essere un esempio per il Napoli. Innanzitutto, un’identità tattica definita, precisa, ritagliata sulla squadra. E su questo, con Sarri, possiamo dire di essere arrivati a un buon compromesso. Poi, c’è da aggiungere un lavoro sul mercato che, inevitabilmente, passa prima dalle cessioni e poi dagli acquisti. Un po’ come conferma il refrain di questi mesi, che vuole Higuain in partenza verso un top club e “un” Kalinic in arrivo. E qui, la situazione comincia a farsi complicata, perché è difficile che un tifoso napoletano possa in qualche modo avallare la cessione del più grande calciatore del campionato italiano, pure se in funzione di un miglioramento corporativo della rosa. Come dire: ci vorrebbe coraggio, ma non si tratta di una strada impossibile. L’Atletico è una bellissima eccezione, però non di quelle che confermano la regola. Non sempre sono i più forti a vincere. A volte, succede pure a chi lotta. E a chi ha delle buone idee.

Post scriptum. Anche con le tifoserie, forse, ci siamo già. Vi ricorda qualcosa?

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