Quando conobbe la milanese che sarebbe diventata sua moglie, Alessandra (“donna che odia senza scampo il calcio”), le raccontò tutta la sua vita senza temere ripercussioni. Le disse una sola bugia. Quando lei gli chiese se fosse tifoso, lui, candidamente, rispose: «Chi io? Ma scherzi? Undici maschi sudati che corrono dietro a un pallone? Che schifo! Certo che no!». Da allora, non passa giorno che Alessandra non glielo rinfacci…
Catello Ausiello, 40 anni, due figli, Pietro di 8 anni e Diego, di 4 (“Alessandra mi impedì di aggiungere “Armando” al nome del secondogenito”), vive in Rua do Aderno ad Arraial d’Ajuda, a Bahia, vicino Porto Seguro. Dopo dieci anni da impiegato nel settore automobilistico è diventato imprenditore: «Ho costruito due condomini in Brasile, li ho rivenduti, tra pochi mesi mi trasferirò in Spagna per comprare anche lì qualche immobile, lavorare nel turismo e magari concretizzare il mio sogno di sommelier aprendo un wine bar a Siviglia o a Granada», racconta.
A Napoli viveva all’Arenella, poi dieci anni a Milano e infine, da 4, il salto in Brasile: «Me ne sono andato perché non mi piaceva l’andazzo preso dall’Italia a livello economico e sociale – spiega – e poi mi ero stancato di fare l’impiegato, volevo fare qualcosa di nuovo».
Il suo piatto preferito è il risotto alla pescatora, “bello asciutto, come quello che faceva Zi’ Tore a piazza Sannazzaro o la Tartana a Cirella, in provincia di Cosenza, il luogo che amo di più dopo Napoli”. Il caffè gli fa male allo stomaco, perciò lo centellina: «La materia prima brasiliana unita alla moka italiana è un’accoppiata unica, me ne concedo solo un po’ in tazzina dopo le grandi bevute a tavola». Il suo colore preferito è il blu (“Se ti avessi risposto ‘azzurro’ sarei stato troppo scontato”, sorride), la canzone “‘O Marinariell”, che gli ricorda amori passati e atmosfere vissute, la leggenda napoletana che lo incuriosisce maggiormente è quella del Monaciello, un misto di paura e tradizione.
Di Napoli gli mancano un sacco di cose, dalla provola alle passeggiate sul Lungomare, alle amicizie. È impegnato da anni in una difficile battaglia per far conoscere Napoli “all’estero”, che sia Milano o il Brasile: «Ci diffamano sempre, a volte ci diffamiamo da soli, ma abbiamo moltissime cose, a parte il sole…».
Il Napoli per lui è la sua domenica da quando aveva 7 anni, «quando ascoltavo alla radio le partite di Rudi Krol e di Diaz, quando lottavamo per salvarci, quando uscivamo col Groningen in coppa». La sua prima partita allo stadio fu Napoli-Juventus 2-1 nell’anno dello scudetto, 1986-87: «Tacconi ci sbeffeggiava ma subì gol su punizione da Renica sotto le gambe e fu una goduria. E poi, prima di entrare, io e papà ci facemmo un grande spaghetto coi purpetielli sotto lo stadio». Il San Paolo è il suo sogno da bambino, un vanto, un orgoglio, mostrare agli amici del resto d’Italia e del Brasile “come facciamo tremare Fuorigrotta quando siamo in Champions”.
Catello è un rafaelita convinto: «Seguo Benitez dai tempi del Valencia, lo difendevo a spada tratta quando lavoravo a Monza e i miei amici brianzoli lo sfottevano perché compassato e privo della grinta di Mou». Racconta che quando prendemmo Benitez e Higuain iniziando il campionato con 4 vittorie e con la partita contro il Dortmund pensò “cca’ scassamm tutt’ cos’”, poi ci fu la delusione per come finì lo scorso campionato e per Bilbao: «Spero che Rafa resti e che Adl gli dia due bei centrali a centrocampo». È convinto che finiremo in Champions: «Non so per quale via, ma ce la faremo». Parla del rapporto tra Napoli e il Napoli come di una storia difficile: «Molti napoletani vanno e vengono, ma non amo neanche una certa intransigenza. Ci sono vari tipi di tifosi, ognuno a modo suo ama il Napoli, certo quando vince i tifosi aumentano». Il suo giocatore preferito è Marekiaro, “un giocatore mostruoso”.
La partita la guarda sul divano di casa, da solo, anzi, in compagnia di una birra brasiliana Skol. A Bahia sono le 16 e fuori ci sono 30 gradi, ma Catello indossa la sua sciarpa portafortuna, nonostante il caldo. Prendiamo il primo gol e lui impreca in tutte le lingue del mondo ma esalta Mertens: «È grosso, lo adoro, giochiamo su di lui! Forza!». Mertens lo premia, e lui salta in piedi gridando. Poi Gabbiadini (“è un killer!”) e lui manda gli avversari amorevolmente a quel paese. Si rilassa, mentre mi prega di mettere a Dries 9 in pagella, domani. Dice che gli manca il suo dirimpettaio argentino Matias, tifoso del Racing e di Maradona, che ha cambiato casa: «Quando gridavo diceva alla moglie di cambiare canale perché sicuro stava vincendo il Napoli o perdeva la Juve». I brasiliani, intanto, commentano “Mertens esta cheio de moral!” (Mertens è pieno di entusiasmo!”) e Catello si esalta. A ogni angolo contro di noi si alza in piedi: «I tiri da fermo mi inquietano», dice. Dopo poco, il secondo gol del Cesena. Catello è incredulo. Il secondo tempo lo vede in piedi, con la testa quasi nel televisore: batte le mani e grida per incitare, altro che stadio San Paolo, che fischia: il clima a Bahia è caldissimo. «Allo stadio, contro l Milan, ho portato mio figlio Pietro – racconta – era felicissimo, ma mi chiedeva perché urlassero ‘Milano merda’. Sai, lui è nato a Milano – spiega – Io gli ho detto ‘io non lo dico, non lo dire neanche tu, lasciali perdere’», Piccoli bambini crescono, al fianco di grandi genitori. Sul ricordo dello stadio Mertens segna il terzo gol per noi. Catello si inginocchia davanti alla tv gridando. Dice che quel 9 in pagella deve diventare 9,5. E urla: «Vai Pecchiaaaaaa». Indugia sulla somiglianza di Andujar con Gassman, mentre si spaventa a morte per la palla persa dal portiere. I brasiliani, intanto, fanno notare che il Napoli ha il miglior attacco della serie A con la Juve. Resta in piedi, soffre, ogni tanto tira un pugno nel mobile. I brasiliani criticano Hamsik e lui non lo tollera. La partita finisce mentre i bambini salgono le scale di ritorno da scuola. Catelo si gode la vittoria in famiglia, racconta ai figli com’è andata e gioca alla lotta con Diego sul letto. «Quando vince il Napoli sono felice – sorride – Siamo ancora là. Ce la possiamo fare».
Ilaria Puglia