«’O zi’, che cos’è l’Heysel?». E poi hanno fischiato l’inno. Io no

Cerco di riorganizzare la routine della vita dopo un episodio che te la scombussola come una panne in autostrada. E tutto quello che mi è accaduto da sabato alle 17 fino a ieri a mezzogiorno, quando finalmente sono riuscito a dormire un po’, è anti routine allo stato pure, anche se tutto non proprio desiderabile. […]

Cerco di riorganizzare la routine della vita dopo un episodio che te la scombussola come una panne in autostrada. E tutto quello che mi è accaduto da sabato alle 17 fino a ieri a mezzogiorno, quando finalmente sono riuscito a dormire un po’, è anti routine allo stato pure, anche se tutto non proprio desiderabile. Ma non posso fare a meno di rimuginare su un piccolo episodio, che poi rimuginare è il modo in cui noi giornalisti, piccole passeggiatrici del lavoro intellettuale, mettiamo a fuoco le cose (anche se passeggiatrici teoricamente a riposo, nel mio caso continuo a farlo per amore).

Dunque succede questo. Stadio Olimpico. Attesa della partita e notizie allarmanti: c’è un ferito grave, un ragazzo napoletano. Purtroppo era vero anche se al momento speravamo che non lo fosse. Si diffonde un’altra voce: la partita non si gioca. A questo punto dico ad alta voce: “Si è giocato all’Heysel con quaranta morti ai bordi del campo, sta a vedere che non si possa giocare stasera”.

E qui un ragazzo, poi risultato esser nato nell’87, mi fa: “Cos’è l’Heysel?”.

Guardo lui, guardo i suoi amici, coetanei, sorrido: “Mi prendete per il culo perché sono vecchio?”. “No, o’ zi’ (i ragazzi napoletani danno dello “zio” alle persone anziane, non è irrispettoso, è stile conversazionale), “no, o’ zi’, veramente non lo sappiamo”. E così, mancava il caminetto col fuoco acceso e mancava il tè caldo, ma lo zio ha raccontato per molti minuti la storia dell’Heysel.

Mi guardavano con gli occhi spalancati. Mi hanno chiesto: “Vi preghiamo, non esagerate”. Ho dovuto rassicurarli, che quelle storie di gente schiacciata contro una rete di ferro, di bambini morti asfissiati sotto il corpo del padre calpestato, erano purtroppo vere. Ho raccontato anche che quella partita si giocò e che ci fu chi esultò per un risultato a dir poco “guidato” e chi ancora considera quel trofeo vinto quella sera come “vinto con merito”.

Poi ho capito che le storie non servono a niente. Perché c’è stato l’inno nazionale e quei ragazzi, miei vicini di posto, hanno fischiato. Io no. Sono italiano come tutti gli altri, mi sento italiano come gli schiacciati dell’Heysel. Ma i giovani, soprattutto chi da quando ha uso di ragione si sente insultare ed augurare la morte per mano di un vulcano, questa cosa se la sono dimenticata o non l’hanno mai assimilata.

Hanno fischiato
Vittorio Zambardino

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