Il “devi vincere” è il contrario di Forza Napoli

Era sepolta da qualche parte tutta questa tensione, tutta questa rabbia che ogni tanto si prende la scena. Se ne sta accucciata buona buona in qualche angolo ogni volta che il Napoli vince, più di borbottare non fa, ma esce a graffiare come una fiera in calore se il risultato è diverso. Altro non le […]

‘O Ciuccio nun ce facette ‘ntussecà vermicielle a vvongole

Era sepolta da qualche parte tutta questa tensione, tutta questa rabbia che ogni tanto si prende la scena. Se ne sta accucciata buona buona in qualche angolo ogni volta che il Napoli vince, più di borbottare non fa, ma esce a graffiare come una fiera in calore se il risultato è diverso. Altro non le riguarda, a questa belva che ci portiamo dentro. Misura ogni cosa soltanto con il risultato. Vincere, devi vincere. E se non vinci, vattene amore, ti disconosco. Sei da azzerare. Se non vinci, ti cancello. Non è una questione marginale, non è una questione che riguarda solo il coro di una curva o due. Se così fosse, sarebbe un ambito accessorio. Trentamila persone circa su qualche milione di tifosi. No. La bestia del “vincere, devi vincere” si sta impadronendo della massa, ruggisce dentro noi tutti, senza distinzione anagrafica o di ceto. Al San Paolo e a Napoli sta saltando ogni classica analisi sociologica e antropologica. Siamo oltre la sfera della squadra di calcio che riempie il vuoto del nulla che siamo. Puoi essere un apprezzato professionista o un sereno impiegato che la sera si dedica ai figlia e alla famiglia, eppure “vincere, devi vincere”. Altrimenti giù, siete una chiavica, andiamo a contare i punti persi contro le piccole squadre. Come se il calcio, per usare le parole di Vittorio Zambardino, fosse uguale al tiro a segno, come se fosse accettabile solo il punteggio pieno, tutti i piattelli frantumati senza neanche un errore, posiamo il fucile e andiamo a prendere la medaglia.

Ma il calcio è un’altra cosa. È fatto di avversari che si oppongono, le gambe contro le tue gambe, la testa contro la tua testa. Il bersaglio si muove, nulla è mai uguale alla partita prima, nulla è mai uguale all’istante prima. L’amore per la squadra di calcio è un’altra cosa. “Vincere, devi vincere” ha il sapore di un imperativo, e gli imperativi nelle storie d’amore non devono entrare mai. È un urlo di pretesa che non contempla alternativa. È l’esatto contrario di “forza Napoli”, il vecchio e dimenticato “forza Napoli” che promette sostegno e conforto. Quanto era bello sentire le gole del San Paolo sbraitare Napoli-Napoli dopo un gol subito. Era un grido di ribellione, era l’assedio all’avversario già prima di mettere la palla al centro. Era un messaggio, un annuncio. Voleva dire: non vi illudete, non uscirete di qui con questo gol di vantaggio. Non ce la farete perché prima ancora che questi 11 ragazzi con addosso la nostra maglia, dovrete vedervela con noi. Qui dentro ci siamo noi. Uno stadio, una comunità, una città. Era sepolta da qualche parte tutta questa tensione, tutta questa rabbia che adesso invece ci fa essere spettatori, pubblico pagante, testimoni di un evento che si svolge sotto i nostri occhi. Può piacerci oppure no. Ma il piacere pare che adesso coincida perfettamente con il risultato, e se non mi piaci vattene amore.

Sono stato al Vomero, al San Paolo e negli stadi di tutta Italia per stare dietro al Napoli. Si comprava il biglietto per essere noi stessi il Napoli. Ora siamo platea, platea per giunta pure schizzinosa. E dire che la nostra squadra ha un piazzamento medio nella sua storia che va fra il settimo e l’ottavo posto. E dire che in tutta la nostra storia fra le prime tre ci siamo arrivati dieci volte. Dieci. “Vincere, devi vincere” può essere l’urlo di qualche ragazzetto confuso, che mai ha vinto e nulla conosce dei processi di costruzione di un obiettivo da raggiungere. Obiettivo che si raggiunge con la fatica, la pazienza, la serenità. Si raggiunge con una squadra forte, con una società solida che sappia far sentire la sua voce nelle stanze giuste quando occorre, che sappia quale lingua parlare nel mondo della comunicazione, che sappia chi è per poter difendere la propria identità. Ma si raggiunge pure con un tifo consapevole. Un tifo che sia tifo. Ci invaghiamo delle storie che ci raccontano dall’estero. Della curva del Liverpool. Del muro giallo del Borussia. Dell’ostinata passione che i Rangers stanno portando in giro sui campi della serie C. In serie C siamo stati anche noi, e forse la rabbia viene da lì. C’è un mondo, mass media compresi, che ha accettato di tollerare a lungo la mediocrità purché fosse una parentesi, purché si tornasse in fretta nel grande giro. Poi la A non è bastata più, due Champions giocate in tre anni (mai successo prima nella storia) non bastano più. Non bastano più un terzo posto (almeno) più una finale di Coppa Italia (è successo solo due volte nella storia: ‘86/87 e ‘88/89), per tacere dell’Uefa in cui siamo ancora in corsa. Non riusciamo neppure a goderci tutto questo, noi che siamo il Napoli e bene dovremmo sapere quanto è difficile andare oltre ciò che siamo. No, adesso è solo “vincere, devi vincere”. Magari fosse così semplice. Magari fosse così vero. A Dortmund, per esempio, ci bastava il pareggio.
Il Ciuccio

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