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State tranquilli: la notizia è Bologna, non i cori sul Vesuvio

I cori razzisti contro Napoli sono finiti in prima pagina (su Repubblica) perché provenienti dalla dotta Bologna. Al fatto in sé ci siamo abbondantemente assuefatti

State tranquilli: la notizia è Bologna, non i cori sul Vesuvio
Lo striscione apparso pochi anni fa nella curva del Bologna

L’uomo che morde il cane

La regola aurea del giornalismo non viene mai meno: a fare notizia è sempre l’uomo che morde il cane. E nell’Italia da sempre intrisa di luogocomunismo, la dotta e civile Bologna che abbandona Lucio Dalla per ricordare al Vesuvio di assecondare la propria natura equivale a un signore che azzanna un rottweiler e lo lascia esangue in terra. Perché – sia chiaro – la notizia non è il solito coro contro i napoletani, bensì il pulpito. E Lucio Dalla, ovviamente.

Ci sono tutti gli ingredienti affinché Repubblica – unico giornale tra quelli di peso a non aver mai sottovalutato il tema razzismo e dintorni nel nostro calcio – sbatta il tema in prima pagina, con un pezzo bellissimo a firma Michele Smargiassi. E in quel pezzo traspare lo sbalordimento per un calcio che evidentemente – e peraltro anche comprensibilmente – non si segue più con l’assiduità di un tempo e per una Bologna, una fetta di Bologna, che sputa in faccia alla sinistra intellettuale la sua cartolina di benvenuto. Cartolina che era stata preparata dal direttore del Museo d’arte moderna di Bologna (MaMBo), il napoletano Maraniello, con l’ingenuo obiettivo di preparare festosamente la partita trovando in “Caruso” di Lucio Dalla il punto d’incontro tra le due tifoserie.

Il mutamento antropologico di Bologna

È finita come è finita. E noi napoletani probabilmente dobbiamo anche ringraziare. Bologna era l’ultima opportunità per cercare di riaprire il dibattito sul tema. Ovviamente non accadrà. Tutt’al più si riaprirà una discussione a Bologna sul mutamento antropologico della città e dei suoi abitanti. Tema caro in piazza Grande sin dai tempi di Guazzaloca – primo sindaco di centrodestra della città – e tornato in auge quando, tra Politiche del 2008 e Regionali del 2010 in quelle terre il risultato della Lega salì prima al 7,8 e poi al 13,7.

Ma, ci dirà chi si intende di pianeta ultrà, che in realtà non capiamo niente. Che loro – come ha scritto Smargiassi – volevano dare una lezione alla sinistra intellettualoide e farle capire che non si deve impicciare di temi che non le competono. Lo stadio è roba loro e allo stadio odiare i napoletani è più importante che omaggiare Lucio Dalla. Si autoproclamano contro il calcio moderno quando conviene a loro, ovviamente. E bene ha fatto Smargiassi a ricordare l’omaggio che Napoli riservò alla memoria di Bulgarelli disegnando un grande otto a centrocampo.

La battaglia culturale perduta

A noi, però, che ormai questa battaglia “culturale” l’abbiamo perduta, di questa polemica resteranno le briciole. A meno che non ci interesserà seguire il dibattito bolognese. Perché adesso – dopo Dalla – i cori sul Vesuvio potranno fare notizia solo in presenza di papa Francesco allo stadio. La battaglia è perduta perché le istituzioni del calcio, i presidenti – compreso il nostro Aurelio De Laurentiis – si sono arresi. O, molto più probabilmente, sono impossibilitati a condurla una battaglia del genere. La commistione ultrà-società di calcio impera da decenni. E, checché ne dicano i teorici della mentalità, è quasi sempre un business, una questione economica. Come ha tragicamente evidenziato il regolamento di conti in casa Juventus durante i giorni di Natale.

Mosche bianche

Sì, ogni tanto spunta una mosca bianca, come l’allenatore del Bologna Ballardini (che, unico tra i dirigenti del Bologna, ha condannato quei cori), o come Rudi Garcia. Ma il concetto è passato: allo stadio si può dire quel che si vuole, perché è sempre stato così e perché il linguaggio è quello, non è roba per educande. Ai fautori di questa tesi – lo ammetto, era la mia fino a qualche tempo fa – non passa nemmeno per la testa che in quegli stadi possano esserci bambini e ragazzini che assimilano quei concetti senza nemmeno sapere il perché.

Del resto ci sarà un motivo se noi ci siamo appassionati al calcio. Lo abbiamo fatto anche perché si andava col ciucciariello in trasferta, ci si sfotteva al bar, la domenica era una festa andare allo stadio (peraltro sempre pieno). Se io, napolista, alla morte di Chinaglia – peraltro non uno stinco di santo – vado a portare un mazzo di fiori all’amico Agustarello, da sempre laziale. Perché al calcio sono stato educato così. Dubito che per i nostri figli sarà lo stesso.

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