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Quando nel calcio cambia una regola, state sicuri che dietro c’è il Milan

Quando una regola cambia nel calcio italiano, sporgetevi. Inclinate la testa di lato e spingete lo sguardo più in là. Guardate. Guardate bene. Quando una regola cambia nel calcio italiano, sbirciate un po’ là dietro e troverete il Milan. Il ricorso contro la chiusura di San Siro per i cori di domenica sera contro i napoletani sarà discusso domani alle 14 presso la prima sezione della Corte di giustizia federale. La norma, come ormai tutti sapete, prevede in caso di cori razzisti e di discriminazione una pena via via crescente: la chiusura di un settore la prima volta, la chiusura dell’intero stadio la volta successiva, la sconfitta a tavolino per 0-3 ed eventuali penalizzazioni in classifica dalla terza in avanti. Il Milan è alla seconda sanzione. Il clima preparato intorno a questo ricorso nei giorni scorsi da tv e giornali milanesi, con qualche rara eccezione, è buon alleato di una decisione che cancelli la squalifica. A rigor di logica, la squalifica potrebbe essere solo cancellata. Difficile che si possa attenuare la sanzione e chiudere solo la curva: sarebbe contro il principio previsto della pena progressiva. Ma quando il ricorso sarà stato discusso, nei giorni successivi, la federcalcio ha già fatto sapere che si riunirà per ridiscutere la norma sulla discriminazione territoriale, che la forte campagna di stampa vorrebbe provare a sfilare dalla lista di comportamenti da sanzionare.
Sbirciate, ve l’ho detto, e troverete il Milan. Non è la prima volta che la società entra con ogni mezzo a sua disposizione nel dibattito pubblico per condizionare le regole e per cambiarle. Quel che accadde nel 1990 è noto. La monetina lanciata allo stadio di Bergamo sulla testa di Alemao impegnò il Milan, Mediaset e numerosi altri opinion maker benevoli affinché venisse cancellata la regola che attribuiva il 2-0 a tavolino per responsabilità oggettiva in casi del genere. Furono impiegati sul campo lettori di labiale, per cogliere il parlato di Carmando: buttati a terra. Indignazione, scandalo, Carmando spiegò che aveva parlato in dialetto, buttati a terra, sdraiati, fammi vedere che hai. La curva milanista non glielo perdonò mai, “abbiamo un sogno nel cuore”, hanno cantato per anni, il resto mi vergogno a scriverlo. Carmando perse l’incarico di massaggiatore della nazionale quando il ct diventò Arrigo Sacchi. Poco importava che lo 0-2 a tavolino di Bergamo fosse ininfluente per l’assegnazione di quello scudetto, sulla classifica finale non ebbe alcun peso. Il Milan si batté. Norma cancellata.
Tornò a battersi, il Milan, nel 1995 perché venissero allargate le maglie del regolamento sul tesseramento degli stranieri. Avevano Boban e Savicevic, extracomunitari. Per tesserarne un altro, avrebbero dovuto cedere uno dei due. Ma loro volevano Weah, centravanti della nazionale liberiana. Weah era stato avversario del Napoli in Coppa Uefa tre anni prima, Ferlaino se ne era innamorato, ma il Napoli aveva già Careca e Fonseca. Peccato, disse il Napoli. Cambiamo la regola, disse il Milan. Weah aveva ottenuto col tempo anche il passaporto francese, il Milan condusse una battaglia affinché quel passaporto comunitario acquisito venisse considerato sufficiente a dargli lo status di comunitario (come avviene oggi, ma nel 1995 non era così, faceva fede la Nazionale per la quale si giocava). La Lega si schierò subito con Galliani, la Federcalcio contro. E si trovò di fronte il solito muro persuasivo di televisioni e giornali. Matarrese si convinse dopo due mesi di battage. Regola cambiata. Rimase solo l’associazione calciatori a difendere il principio. Poco. Il 6 maggio la vittoria. Weah veniva considerato comunitario, il Milan poté prenderlo senza privarsi di Boban e Savicevic. Anche se dall’Uefa fecero sapere che per loro, nelle Coppe, restava un liberiano. Domani, in Corte federale, il Milan va in campo per il suo triplete.
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