Pur disprezzando la retorica del napoletano emigrante – posizione alquanto impopolare che mi ha spinto fino a pronunciarmi sulla sostanziale equivalenza della pizza scrocchiarella romana con quella della Santissima Trinità Brandi-Michele-Trianon – io sono uno che per la capitale gira con un scooter sul quale esibisce un cuore azzurro e la foto stilizzata del Pocho Lavezzi.
La esibisco anche alla vigila di sfide del Napoli con la Roma in quartieri ad altissima presenza di romanisti fondamentalisti, come Testaccio, laddove invece, il direttore di questo sito (l’amico Gallo, di cui periodicamente chiedo invano le dimissioni) rifiutò di produrre sul proprio parabrezza l’immagine di Quagliariella, quando ancora era nelle nostre grazie, manifestando timori per l’incolumità del proprio sgarrupatissimo motociclo (che non a caso di lì a poco lo avrebbe sdegnosamente abbandonato a un triste futuro da uomo-pensilina in attesa di autobus).
Premesso ciò, mi costa non poco ammettere di vivere un momento di profonda crisi sentimentale con la mia grande passione calcistica, il Pocho. Mi costa ammetterlo soprattutto con Gallo, il mio principale rivale di questi anni trascorsi a litigare con lui sulla questione lavezziana, proprio quest’anno che lui ha rivisto le proprie posizioni di cieca ostilità nei confronti dell’argentino fino al punto da tesserne, pur saltuariamente, le lodi. Domenica scorsa, per la prima volta, all’inizio del secondo tempo, ho invocato la sosttuzione di Lavezzi. E quando Mazzarri l’ha spedito fuori, io sono esploso con un violentissimo: “E’ fatt bbuono, Mazzà!”. E’ stato choccante. E’ stato come guardare la tua donna e scoprirla improvvisamente rugosa e stanca, intristirti per le sue pantofole di peluche che una volta ti ispiravano tenerezza, desiderare di vederla andar via con un amante di cui improvvisamente auspichi l’esistenza, immaginare un tuo amplesso con la vicina stronza di cui tante volte avevi riso con lei, vederla uscire di casa e pensare che non c’è mai una ragione perché un amore debba finire, se potessi ragionarci sopra, ma non posso.
In un attimo m’è passata davanti tutta la mia vita da lavezziano convinto, le ore trascorse col Gallo a spiegargli che il Pocho non segna perché non è una punta, è un Bruno Conti, è un Franco Causio, è un Roberto Donadoni, gente che faceva cinque-sei gol a stagione, quando gli andava bene, ma faceva segnare tutti gli altri; ore passate a sostenere che più gli si chiedeva di segnare più lo si danneggiava, più gli si chiedeva di stare nei pressi dell’area più gli si imbrigliava il suo fenomenale talento di idraulico alla ricerca istintiva del buco, non della toppa.
Di tutto questo resto convinto, la mia crisi non nasce dalla sua incapacità di non metterla dentro, ma dalla sua involuzione psicologica. E’ evidente che ormai il Pocho si è convinto che il calcio italiano è fatto per i furbetti, per quelli che si lanciano a terra appena li tocchi, ma forse ha sottovalutato che alla lunga perfino i nostri mediocri arbitri imparano a conoscerti e ti aspettano al varco della simulazione. Ma c’è di più. Il Pocho s’è convinto anche che è quasi degradante per uno come lui fare ciò che sa fare meglio, cercare la linea del fondo campo e metterla dentro. S’è pure convinto che i ghirigori a centrocampo, che si concludono quasi sempre con lui che perde palla e gli altri che partono in contropiede, gli saranno perdonati sempre. Così come s’è convinto di poter fare facce e faccine, quando esce dal campo, perché gli saranno perdonate dal tecnico. Per non parlare dei trappoloni in cui lo fanno cadere gli avversarsi, come domenica a Cagliari, quando tutti avevamo capito che al primo tentativo di prender palla si sarebbe beccato l’ammonizione invocata dallo stadio. Se prima era necessario lo sputo di Rosi, oggi è sufficiente un rimbrotto dell’arbitro per fargli perdere la testa. La soluzione, per il Pocho, sarebbe quella di giocare a calcio ricordandosi chi è, da dove viene e dove non è ancora arrivato e forse non arriverà mai.
Luca Maurelli