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26 anni fa venne ammazzato dalla camorra Giancarlo Siani, giornalista giornalista

«Li chiamano “muschilli”, gli spacciatori in calzoncini, i corrieri-baby».

Così inizia l’ultimo articolo di Giancarlo Siani, pubblicato dal Mattino di Napoli il 22 settembre 1985. L’indomani Siani sarebbe stato ammazzato sotto casa, i colpevoli sarebbero stati individuati tardi, dopo inchieste contraddittorie e false piste. Se la camorra non l’avesse ammazzato, oggi Siani avrebbe cinquantadue anni. Solo da pochi anni la memoria di Giancarlo, cronista di frontiera che non riuscì mai a vedere un contratto giornalistico col suo nome, è diventata patrimonio di tutti, non solo dei giovani giornalisti che in quel ragazzo con gli occhiali e una strana jeep verde vedono un punto di riferimento. Da quando il fortunato film di Marco Risi, “Fortàpasc” ha portato sul grande schermo questa vicenda, una categoria, quella dei «giornalisti-giornalisti», contrapposta a quella dei «giornalisti-impiegati», è diventata sinonimo di cronista impegnato. Ebbene: ci sono, oggi, i giornalisti-giornalisti? E se sì, dove?

C’è un istituto americano che documenta la percezione del giornalista attraverso i film, le fiction e i libri che raccontano dei reporter. Il profilo che emerge è un Humphrey Bogart con debolezze da Clark Kent (che poi quando s’incazza diventa Superman e non ce n’è più per nessuno). Pochi pensano che il giornalista-giornalista non dev’essere necessariamente un maratoneta della notizia, un Indiana Jones dell’intervista. Ma semplicemente uno che quotidianamente si pone la domanda: «perché?» come una necessità da soddisfare nel giro di ventiquattr’ore.

Chissà come sarebbe, oggi, Giancarlo Siani.
Avrebbe ancora gli occhiali o le lenti a contatto? E la Mehari sarebbe finita in un garage del Vomero a mo’ di ricordo dei begli anni ruggenti, o l’avrebbe rottamata? Chi l’ha ucciso ha reso queste domande inutili. Ma ha tramutato in indelebile il ricordo, scolpito nella memoria. Solo nelle dittature la stampa è quieta: le veline del Minculpop di Mussolini nel luglio 1943 ordinavano ai giornali «massima calma e massima decisione». Ecco, se volessimo sottostare a quel gioco di trarre una lezione da ogni cosa, la vicenda di Giancarlo Siani insegna che non è la calma né la «massima decisione» a fare il giornalista-giornalista. Ma la passione e la convinzione. La convinzione che le parole, nonostante tutto, riescano a smuovere ancora qualcosa.
Ciro Pellegrino

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