Diego Armando Maradona crede in Dio? Come tutti i ragazzini cresciuti nei quartieri poveri argentini, ha imparato a contare solo su se stesso. Perciò se Maradona crede, allora crede soltanto a metà. Perché prega con una mano sola. L’altra gli serve per aiutarsi: così anche il cielo l’aiuterà. E infatti. Quella mano gli è servita allo Stadio Azteca di Città del Messico. Quarti di finale, Mondiali 1986. Argentina contro Inghilterra. Maradona è, indiscusso, il miglior giocatore del mondo. Cinquantunesimo minuto, area inglese: Maradona si ritrova in aria con il portiere avversario Peter Shilton. La situazione si può riassumere in cifre: Maradona, 1 metro e 66; Shilton, 1 metro e 83. Shilton salta: può usare braccia e mani. Maradona salta: può metterci soltanto la testa. Nessuno vede nulla. Tranne che la palla è in rete. Gol.
Ma che è successo? Come? Semplice: sin da quando è un bambino, Maradona sente ripetersi che gioca come un dio. Perciò quella sera decide di accordarsi un piccolo miracolo.
Maradona ripara alla grande ingiustizia che lo separa da quel gol. Alla diseguaglianza naturale sostituisce una giustizia superiore: quella della volontà. Per confrontarsi col gigante Shilton si offre un’espansione della propria taglia fisica perfettamente illegale, arbitraria. Ci mette la mano. Giobbe piangeva rivolto a Dio. Maradona non chiede nulla a nessuno. Agisce. E segna. Fu chiamata la “mano di Dio”. Espressione straordinaria, che inventò lo stesso Maradona nella conferenza stampa subito dopo la partita. Trasformata, per l’occasione, in una lezione di teologia. Gli chiedono come ha segnato quel gol. Lui risponde: “Un po’ con la testa di Maradona e un po’ con la mano di Dio”. Ironia unita a inconsapevole saggezza. In fondo sta dicendo: o Dio non esiste, e allora io c’ho messo la mano, oppure Dio esiste ed è lui che ha segnato il gol. Se in religione il miracolo è ciò che si crede, quella sera il miracolo fu che nessuno, arbitro compreso, vide quella mano. Una scorrettezza. Un colpo da rapina. Un’azione deprecabile e antisportiva.
Come quella, tante altre. Il portiere tedesco Schumacher che si scaglia con violenza sull’attaccante francese Battiston, in un capolavoro di antigioco. Zidane e il colpo di testa contro il petto di Materazzi, dopo gli insulti ricevuti dall’italiano, finale mondiale 2006. Henry che controlla con la mano contro l’Irlanda, riducendo la mano di Dio a una mano da ladrone (ed eliminando l’Irlanda di Trapattoni nelle qualificazioni ai mondiali, 19 novembre 2009). Eric Cantona, degno emulo di Bruce Lee, che con determinazione selvaggia si getta su un tifoso (Manchester Utd-Crystal Palace, 1995): otto mesi lontano dai campi e 120 ore di servizio sociale.
Questi gli esempi analizzati da un giovane filosofo francese, Ollivier Pourriol, che nel suo libro Eloge du mauvais geste (Elogio del cattivo gesto, Edizioni Nil) azzarda una tesi peregrina: le scorrettezze dei grandi campioni di calcio altro non sono che l’affermazione della loro libertà e del loro genio. Naturalmente l’analisi si può estendere anche a casa nostra: dallo sputo di Totti alle intemperanze d’unCassano o Balotelli e, da ultimo, un Gattuso nei panni del dottor Jekyll, più interessato al collo dell’allenatore in seconda del Tottenham, Joe Jordan, che al fair play. In Serie A lo scambio di sputi tra Lavezzi e il giallorosso Rosi nell’ultimo Roma-Napoli è costato all’argentino tre turni di squalifica (confermati venerdì scorso) e gli interisti Eto’o e Chivu sono stati puniti per incomprensibili pugni in faccia.
Insomma, come giustificare questi comportamenti? A nessuno, tanto meno un filosofo, interessa giustificare. Si tratta piuttosto di comprendere. Il cattivo gesto, come un lapsus, fa affiorare un incosciente, manifesta ciò che è nascosto. È un momento di singolarità.“Non c’è nessuna verità, ed è proprio per questo che tutto il mondo ama il calcio”, affermava Michel Platini nel 1987, in una famosa intervista. Perché prima d’esser folli, questi momenti di pazzia sono gesti spontanei. Come se il campione si avventurasse al di là del campo da gioco: in uno slancio di libertà assoluta, inventa un gesto insolito, che rivela l’altro lato, il risvolto del suo genio. Un capolavoro alla rovescia.
In quel momento il campione non rispetta le regole. Ma una regola non è una legge naturale. Vale soltanto se è promessa e rispettata, e non semplicemente obbedita. Si obbedisce alla legge; alla regola si è liberi di disobbedire. È la sua stessa essenza: la regola presuppone una libera scelta. Se la regola è un segno di civiltà, la disobbedienza resta un atto di libertà. Rispettare od obbedire: è qui che si gioca tutto. Poiché si può obbedire all’arbitro anche ingannandolo, nel momento in cui è girato di spalle. Per questo Platini dirà, sempre in quell’intervista, che il calcio è uno “sport del difetto”. E il difetto del campione è quello d’esser un uomo. Nella scorrettezza sopprime tutto: qualsiasi regola del gioco, l’intermediazione del pallone, l’arbitro, il pubblico. È soltanto un uomo, col suo onore e debolezze, pronto a darne la prova di fronte al mondo intero. Nella scorrettezza del campione c’è il peggio e il meglio. Il meglio che compie il peggio. C’è un monopolio dell’eccezionale. Per questo rimane alla memoria.
Lo scriveva Jean-Paul Sartre: “Io conosco quel tizio. Si chiama Erostrato. Voleva diventare illustre e non ha trovato di meglio da fare che bruciare il tempio di Efeso, una delle sette meraviglie del mondo. – E come si chiamava l’architetto di questo tempio? – Non ricordo più, non credo che si sia mai saputo il suo nome – Davvero? Eppure ricordi il nome di Erostrato. Come vedi, non aveva poi fatto male i suoi conti”.
Marco Filoni (Il Fatto Quotidiano)
Sputi e testate, scorrettezze dei campioni
ilnapolista © riproduzione riservata