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Diritto di sciopero anche per i nababbi

E’ oramai ufficiale: il prossimo fine settimana si gioca e lo spauracchio dello sciopero, agitato per mesi dai calciatori, viene messo definitivamente da parte. Echi della questione sono giunte anche sulle pagine del Napolista, ma solo in riferimento all’opportunità che l’eventuale sciopero ci avrebbe offerto di non dover affrontare il Genoa senza Lavezzi. L’argomento però, in linea con la mission di “analisi socio-politica del mondo del pallone” che si propone il blog, merita maggiore attenzione.
Si parta dal presupposto che lo sciopero dei calciatori può non essere condiviso, ma è legittimo. Ad oggi a livello mediatico se ne è parlato essenzialmente male: ennesimo vizio di una casta di nababbi, gesto sconsiderato, o ingiustificato. Gli striscioni apparsi nelle curve italiane dimostrano che anche il grande pubblico non ha preso bene la sola ipotesi di una protesta dei calciatori. Ma è un atteggiamento sbagliato: anche se guadagna cifre stratosferiche, non si può negare a un lavoratore il diritto a far valere le proprie ragioni. Seppure il neoevangelico Max mi retribuisse con centomila euro al mese per scrivere i post per il blog, ciò autorizzerebbe lui a impormi qualsiasi condizioni e obbligherebbe me ad accettarle supinamente? Non credo. Lo stesso vale per i giocatori di calcio, visto e considerato che tra gli otto punti della discordia ve ne sono alcuni di una certa importanza, come la possibilità di scegliere dove curarsi, l’opportunità di evitare sotterfugi che si possono trasformare in strumenti di mobbing, o la libertà di rifiutare trasferimenti indesiderati. (Ma, sul serio, se Max pur di levarmi di torno mi volesse cedere a fronte di uno stipendio di pari livello allo Juventinista, io secondo voi dovrei essere costretto ad accettare?)
Però, c’è un però. Se la Aic, sindacato maggioritario dei calciatori italiani, ha sbagliato qualcosa, non è tanto l’aver indetto la possibilità di uno sciopero, quanto il format individuato per lo sciopero stesso. Partiamo da un presupposto fondamentale: quello cui rischiavamo di andare incontro non è neanche uno sciopero. Quando un operaio non prende posto alla catena di montaggio, ma rimane fuori lo stabilimento produttivo a picchettare, la sua prestazione di lavoro è andata irrimediabilmente persa. La quindicesima giornata di campionato di serie A, come quelle delle categorie inferiori, sarebbe stata invece recuperata: quindi si dovrebbe parlare piuttosto di “posticipazione della prestazione lavorativa”, che di uno sciopero.
Detto questo, veniamo al primo punto: i calciatori avrebbero mietuto una grande vittima civile. Se è vero che l’astensione dallo scarpino avrebbe ricordato a tutti per due giorni che il cosiddetto “calcio moderno”, con la pay per view, gli stadi virtuali e il merchandising accelerato non può prescindere da ventidue virgulti che si rincorrono a vicenda e rincorrono una palla per spingerla in una rete, tralasciava un particolare fondamentale. Se tutto ciò ha un senso e si è trasformato in fenomeno di massa prima e in industria poi, è stato possibile perché ci sono milioni di persone disposte a guardare i suddetti virgulti esercitare proprio questo sport e non un’altra attività. Milioni di appassionati che con lo sciopero prospettato sarebbero stati ingiustamente danneggiati nei propri sentimenti e che quindi non hanno provato alcuna empatia per i calciatori. Infine arriviamo al dato fondamentale. Uno sciopero è tale non solo quando il lavoratore, protestando, provoca un danno al “padrone”, ma quando scioperando ha anche il coraggio di andare incontro a un nocumento personale. Leggasi paga giornaliera non pagata. Per di più il riottoso dimostra con la propria protesta l’ardire di incorrere in sanzioni, provvedimenti vari se non ritorsioni che lo possono colpire nel personale, cos avalida non solo nella Manchester del XVIII secolo, ma anche al giorno d’oggi. Di tutto ciò nella protesta dei calciatori non v’è traccia. Ho fatto diverse ricerche su internet e scomodato più persone, cui va tutta la mia riconoscenza, per capire – io laureato in lettere – cosa preveda il contratto di un calciatore in merito allo sciopero. A quanto mi risulta, il contratto che stringono società calcistica e singolo professionista è tenuto a recepire le linee guida di quello nazionale (per inciso quello appena scaduto e sul cui rinnovo si stanno accapigliando), potendo applicare modifiche migliorative e non detrattive da quanto stabilito in sede di contrattazione nazionale. Ciò comporta che è impossibile sapere anche solo in media quale tipo di danneggiamento personale si sarebbero inflitti gli scioperanti, soprattutto quelli della primissima fascia della serie A, perché si dovrebbe andare a spulciare le migliaia di contratti depositati presso la lega per capire gli articoli 10 e 11 del contratto nazionale (titolati rispettivamente “Istruzioni tecniche, obblighi e regole di comportamento” e “Inadempimenti e clausole penali”) come sono stati declinati caso per caso. Nell’impossibilità di svolgere una ricerca del genere, mi fido del mio fiuto: datosi che i calciatori non hanno affatto avuto la premura di sventolare il dato statistico del sacrificio pecuniario, deve arguire che o questo è del tutto assente, o è così marginale da non meritare di essere menzionato. Tirando le fila del discorso, i calciatori hanno commesso almeno due errori: scegliere un tipo di protesta che calpesta l’umore del proprio pubblico di riferimento e che dà adito al dubbio che, a parte il gesto simbolico, non costa loro molto. Adesso, non essendo un iscritto all’Aic, non è mio compito trovare soluzioni alla questione, ma posso avanzare un suggerimento. La prossima volta, i nostri football players potrebbero optare per uno sciopero forse meno clamoroso, ma certamente altrettanto incisivo nonché scevro dalla critiche appena fatte. Come avremmo reagito se i nostri beniamini avessero detto: se non ci state a sentire, per due mesi non rispettiamo i contratti di sponsorizzazione siglati per noi dalle nostre società? Per sessanta giorni niente pubblicità, niente spot, niente inaugurazioni di locali e niente presenze nelle trasmissioni televisive amiche. Calendario delle partite garantito, e danno economico distribuito tra i presidenti, la federazione e ai calciatori stessi. Sono convinto che avrebbero avuto più comprensione e simpatia da parte di tutti. Sicuramente la mia stima.
di Roberto Procaccini

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