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Ti chiedo scusa Gonzalo: ti avevo preso per juventino

Un capitolo del libro che il Napolista ha dedicato al record di Gonzalo Higuain con la maglia del Napoli. Gallo ipotizza uno scambio tra Tevez e il Pipita

Ti chiedo scusa Gonzalo: ti avevo preso per juventino
“Higuain - Dica 36”, il libro del Napolista

Juventino. Sì, juventino. Lo confesso, recito il mea culpa. Ti avevo preso per juventino, Gonzalo. Non so se l’ho pensato da sempre. Ma l’ho pensato. E a un certo punto, me ne sono quasi convinto. Ho immaginato più volte uno scambio di persona. Chissà chi si era divertito a invertire i destini. C’era un pacco diretto a Napoli con dentro l’uomo simbolo del Boca recente, il calciatore che la povertà l’ha vista in faccia e dentro il corpo, che se la porta in una cicatrice sul collo che ha voluto lasciare per non dimenticare. Carlitos Tevez. E un altro direzione Torino. Col calciatore che ha conosciuto solo due squadre: River Plate e Real Madrid. Chissà chi ha giocato con la corrispondenza, chi ha invertito le fascette. Perché chi ha indossato quelle maglie può finire solo a Torino. Da loro. La squadra dei padroni.

L’ho pensato e lo pensavo ogni volta che ti osservavo incazzato, pronto a sbraitare, a sacramentare i compagni, oppure fare i vuommechi per un infortunio alla coscia.

Il luogo comune, Gonzalo. Mi ha fregato il luogo comune. Proprio qui, a Napoli, terra martoriata dai luoghi comuni. Eppure è stato più forte di me. Ricordo quel giorno di luglio, quando ti vidi evidentemente insofferente in una saletta dell’aeroporto mentre sorridevi forzatamente all’abbraccio dei tifosi. Con te c’era un signore, un bell’uomo che badava personalmente ai suoi bagagli, li prendeva direttamente dall’automobile e li portava a tracolla.  Era un certo Pepe Reina. Tu, invece, eri servito e riverito. Eppure sfatto dal caldo e dal viaggio. E dai tifosi.

Non riuscii a non leggere nei tuoi occhi la frase: “Ma dove sono capitato?” Ed era solo la saletta di un aeroporto. Tu che eri nato bene, figlio di pittrice; e anche di calciatore sì, pure del Boca sì, ma in fondo che c’entrano i genitori coi figli? Tu che a 19 anni avevi calcato il Santiago Bernabeu, che l’Europa League non sapevi neanche che cosa fosse. Tu che avevi sempre mangiato ostriche, tartufi e cioccolato fondente. Avevi sempre fatto colazione col foie gras e ora ti ritrovavi tra cicoli e pizze fritte.

Ti ho sempre guardato con diffidenza, Gonzalo.

Non capivo. Per carità, hai sempre giocato da dio. Di fino, come piace a noi. Mostrando e poi nascondendo sdegnoso. Come piace a noi. Facendo capire che cosa sei in grado di fare, per poi però non tenere fede alle promesse. Proprio come siamo noi napoletani, questo l’ho capito dopo: si sa, è dura guardarsi allo specchio.

Ti ho odiato, Gonzalo, quando a Dortmund sei andato molle su quella maledetta palla invece di sbatterla dentro insieme col portiere. E ti ho ammirato quando ti sei girato sul piede perno e di sinistro hai battuto in diagonale il portiere dell’Arsenal. Mi lasciasti a bocca aperta, come un rovescio in scioltezza di Federer. E poi ti mettesti a piangere. Una crisi di nervi. Eri fuori dalla Champions, Gonzalo. Quella sera sbattesti contro la dura realtà: eri arrivato in una squadra che se non la portavi avanti tu in Champions, non ci poteva arrivare. Nessun altro lo avrebbe fatto per te. Non eri più l’ornamento di un piatto da nouvelle cuisine. Addio calcio destrutturato, Gonzalo. Qui devi fare il pane. Qui non si mangia per estetica.

Non ti avevamo capito, Gonzalo. Almeno non io. Non avevo la forza e la lucidità per comprendere che eri come noi. Anche se sei nato bene. Il luogo comune, Gonzalo. Come se Napoli fosse solo Scampia e Gomorra, come i napoletani intervistati alla tv che chissà perché li scelgono sempre che non parlano in italiano, come se da noi ci fosse un’altra lingua. Io, napoletano, mi sono lasciato trascinare dallo stereotipo. E ho dimenticato la storia di Napoli. Il ruolo dell’alta borghesia napoletana. Ferito a morte e Jep Gambardella. Indolente e straordinariamente di talento. Tu il potere di far fallire le partite di calcio lo hai sempre avuto.

Tu sei femmina come noi, Gonzalo. Devi essere corteggiato, sollecitato, adulato, poi devi sbattere porte in faccia, gridare a tutti che non te ne frega niente del tuo talento, vedere l’effetto che fa e poi, soltanto dopo, segni un gol dei tuoi. Quasi con nonchalance. Insomma, Napoli. “Fatemi sentire che mi amate, e poi vediamo”.

Hai sempre avuto paura di perdere, Gonzalo.

Proprio come noi. Perché per provare a vincere bisogna rischiare di perdere. Non c’è alternativa. Ma è dura, troppo dura, offrire tutto sé stesso e poi fare i conti con la sconfitta. Meglio conservarsi l’angolino dell’alibi, così comodo, così confortevole. Non si vince mai, ma che fa? Vincere, Gonzalo, costa tanta, troppa fatica, necessita di un cambiamento interiore. I

l talento, da solo, non basta. Perché tu, Gonzalo, diciamo la verità, hai perso spesso. Tanto per essere un predestinato, uno che a 19 anni ha lasciato il River Plate per il Real Madrid. E che a un certo punto è stato messo da parte per Benzema, non Mario Kempes. E la tua faccia l’hai messa sulla sconfitta di una finale mondiale, quando ti sei divorato un gol che ancora grida vendetta. O quando, l’anno dopo, hai tirato alle stelle il rigore nella finale di Copa America. E non parliamo dei rigori di casa nostra. Né dei gol che ti sei divorato contro il Dnipro. Cambiamo discorso, è meglio.

Hai voluto toccare il fondo, come capita spesso a chi del talento non sa che farne. Come capita spesso anche a Napoli. Ti sei ritrovato in un paesino sperduto del Trentino. Tu e un signore che non conoscevi, che non ti ha trattato come un professionista ma come un figlio. Un signore che ha saputo toccare le corde giuste. Questo desideravi, Gonzalo. Perché in fondo del professionismo non te n’è mai fregato niente. Tu non giochi per soldi, non lo hai mai fatto. Tu non vuoi arrivare, tu sei nato arrivato. Tu sei un semplice, si vede da come sorridi a un tavolo di biliardo. Si vede dall’assenza di tatuaggi sul tuo corpo: una rarità che fa di te un panda nel mondo del football.

Avevi bisogno di una sfida personale, Gonzalo. Un motivo per prendere quel pallone e scaraventarlo in rete. E lo hai fatto, Gonzalo, eccome se lo hai fatto. Una, due, tre, fino a trentasei volte. Trentasei. Con una naturalezza imbarazzante. E hai cominciato a sorridere. A guardarti attorno e a osservare volti sorridenti. A sentirti amato. La città rapace ha lasciato il posto alla città amorevole.

In tutti i modi hai segnato, Gonzalo: di destro, di sinistro, di testa, di potenza, di astuzia, in acrobazia. In area, da fuori area. E persino su rigore. Trentasei, Gonzalo. Come nessun altro nella nostra serie A. Il più grande cannoniere di sempre. Di sempre, Gonzalo. Bastava farti sentire a casa, bastava farti sorridere. L’ha capito quell’allenatore che veniva dalla gavetta, che ha fatto il percorso inverso dell’italiano medio: ha abbandonato il posto fisso per cercare la felicità. E ha applicato la sua ricetta su di te, Gonzalo. Gioca e sii felice. Il resto verrà da sé.

Ora resta l’ultimo passaggio, Gonzalo. Quello probabilmente più complicato. Accettarsi. Non so se ti divertiresti in una capitale del Nord, che sia Parigi o Monaco di Baviera. Credo di no, deciderai tu. Come non ti saresti divertito alla Juventus, ora l’ho capito. Se decidessi di rimanere, però, anche noi dobbiamo accettare te. Sei come noi, Gonzalo. Quando cancelli Nordahl con un gol da cartoni animati, e quando ti vuoi fare giustizia da solo contro il mondo su un campo di calcio del Nord-Est. Sei il nostro specchio, Gonzalo. Speriamo che Napoli lo capisca il più tardi possibile.

 

 

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