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Scuola Belvedere, parla il preside: ‘La scuola media deve educare alle relazioni’

Intervista a Paolo Battimiello: dall’organizzazione della scuola che dirige alle differenze con Scampia passando per lo sport

Scuola Belvedere, parla il preside: ‘La scuola media deve educare alle relazioni’

Da quando è arrivato lui, poco meno di due anni fa, la scuola che dirige è diventata una delle più richieste per gli alunni che abitano al Vomero e non solo. Una scuola che sembra essere rinata, almeno stando a quanto racconta chi ci è passato o chi ha figli che la frequentano, con le tante attività scolastiche ed extrascolastiche che l’hanno resa un luogo vivo, ancorato al territorio e a misura di bambino.

Stiamo parlando di Paolo Battimiello, classe ’52, preside della scuola media Andrea Belvedere di vico Acitillo, al Vomero, docente di matematica e fisica con una lunga e ricca esperienza nel campo della scuola, ma noto soprattutto per aver trascorso undici anni all’istituto Virgilio IV di Scampia come, appunto, dirigente scolastico.

Belvedere, preside Paolo Battimiello

I cinque cardini della scuola

Alla Belvedere, con la collaborazione e la disponibilità dei suoi docenti, ha messo in moto una straordinaria rete di energie e sinergie sfociata in progetti che coinvolgono bambini, docenti e genitori. Tutte hanno come struttura portante i cinque cardini su cui è fondata la scuola: musica, sport, educazione scientifica, volontariato e cultura. Con una attenzione particolare alle relazioni tra le persone, considerate le fondamenta della scuola, dell’educazione dei ragazzi e del loro rapporto con il mondo degli adulti.

Su questi cardini, la scuola ha messo in campo iniziative di ogni tipo, dai laboratori di scrittura creativa ai progetti di arte, da quelli di inclusione sociale alle mostre, visite guidate di domenica ed eventi di beneficenza che hanno come protagonisti i bambini, e persino una rete di psicologi che va a scuola a parlare con i ragazzi.

‘La mia porta è sempre aperta’

Il preside ci accoglie alle 9 del mattino nella sua stanza al primo piano della scuola Belvedere e la prima cosa che ci chiede è se preferiamo che chiuda la porta: «Sa, perché la mia porta è sempre aperta, mi piace così», spiega.

Ci dice che ha voluto incontrarci in orario scolastico per farci capire come funziona la sua scuola: «Quello che sente adesso è il chiasso del cambio ora, ma tra cinque minuti, come di incanto, i decibel diminuiranno».

E così accade, come per miracolo: all’improvviso il vocio dei bambini si interrompe, la scuola riprende le sue attività didattiche ed il silenzio cala come una panacea. Vivremo insieme lo scoccare di due campanelle.

Belvedere. Ingresso

Le attività della scuola

Preside, le attività che si svolgono nella sua scuola sono tantissime. La Belvedere è praticamente sempre aperta, non solo per le attività didattiche. Sono tutte gratuite?

«In linea di massima sono tutte gratuite perché svolte con le competenze che mette in campo la stessa scuola. Alcune, però, per le quali ci rivolgiamo ad esperti esterni con competenze che noi non abbiamo, prevedono il contributo dei genitori. Mi riferisco ad esempio a una parte della nostra offerta formativa di inglese, per la quale sono previste tre ore settimanali, svolte in orario scolastico. Per una di queste tre ore il docente viene affiancato da un madrelingua del St. Peter’s School e quest’ora è a pagamento. Oppure alla possibilità di avere la certificazione Trinity per l’inglese, in orario extrascolastico (40 ore di lezione con madrelingua per 100 euro). O anche per lo spagnolo per cui di pomeriggio una società privata offre 40 ore di lezione con madrelingua per 100 euro.

«La scuola mette a disposizione i suoi locali anche di associazioni esterne che offrono attività che noi non possiamo gestire, come la patente Eipass per il computer. Si instaura un rapporto direttamente tra la società e i genitori. La scuola mette a disposizione i locali in modo che, quando terminano le lezioni, i ragazzi non devono andare via ma possono consumare un piccolo pasto a scuola. I genitori sono più tranquilli e non penalizziamo quelli che abitano lontano e i più piccoli, che non sono ancora autonomi negli spostamenti».

I rapporti con il territorio

Per svolgere tutte queste attività avete intessuto una serie di rapporti sul territorio. È così?

«Sì. Tra le tante realtà che ci affiancano c’è anche la libreria Iocisto, per l’italiano. Deve sapere che ogni classe di qualsiasi scuola italiana ha 10 ore di lettere a settimana, divise in genere in 9 tradizionali e 1 dedicata all’approfondimento. Noi invece abbiamo diviso questo patrimonio di 10 ore in 8 più 2: otto sono affidate alla docente di italiano, che fa italiano, storia e geografia, le altre due invece sono dedicate alla lettura e all’educazione civica.

«Ogni settimana, una di queste due ore viene coperta da un’altra docente, che fa educazione alla lettura: legge in classe, affinché la lettura non sia più una cosa rilegata ai ritagli di tempo. Ci aiuta Iocisto, che due volte al mese ci manda i suoi lettori e anche gli autori dei libri scelti dai docenti con i ragazzi. L’altra ora, invece, è dedicata allo studio della costituzione italiana o, se le piace di più, all’educazione civica».

Una scuola tutta da vivere, quindi…

«Sì, anche il sabato, quando non si fa attività didattica, organizziamo una serie di iniziative, soprattutto di volontariato, che alle persone piacciono. Perché, sa, le persone stanno bene quando gli si offre l’occasione per potersi mettere in gioco. Soffriamo molto di pigrizia, oggi, ma abbiamo un grande patrimonio fatto di buona volontà e disponibilità. Diciamo che bisogna mettere in moto la curiosità».

Belvedere. Rapporto con territorio

La scuola come riferimento culturale

È lei che va a cercare la collaborazione di enti e associazioni o sono loro che cercano lei?

«Metà e metà. Però tenga conto che io sono arrivato al Vomero non da sconosciuto: molti sapevano della mia attività a Scampia. Io dico sempre che in questa scuola del Vomero è arrivato molto da Scampia, di quella capacità di intessere relazioni, di considerare l’altro non come qualcosa da cui difendersi, ma come qualcuno che può aiutarti, darti una mano. Questo si ripercuote anche nei rapporti tra colleghi. Fare in modo che un docente si rivolga prioritariamente a un suo collega e gli chieda di dargli una mano non è una cosa che si compra al mercato, perché spesso il lavoro del docente è un lavoro di solitudine e invece dovrebbe essere il contrario. Cogliamo tutte le occasioni, non importa chi va da chi, l’importante è che la cosa accada. Per noi la scuola deve essere un centro di riferimento culturale del territorio».

Le esperienze precedenti

Lei dirige la Belvedere da un anno e mezzo. Prima dove è stato?

«Ho cominciato da docente di matematica e fisica in un ambiente rurale che mi ha molto insegnato e formato, nell’Alta Irpinia, poi alla Sogliano, sul Ponte di Casanova, dove sono rimasto 13 anni, poi 11 anni alla Viviani di via Manzoni, altri 11 anni a Scampia e adesso qui».

Belvedere. Murales

I bambini del Vomero e quelli di Scampia

In una video intervista lei ha definito Scampia un luogo magico. Si sente che le è profondamente legato. Che differenze ci sono tra i bambini di Scampia e quelli del Vomero, al netto delle diverse opportunità che vengono offerte loro?

«Al netto delle opportunità nessuna. Quando si va a lavorare lì la prima cosa da pensare è che quei bambini, come tutti i bambini, hanno due occhi, un naso, una bocca e due orecchie. Scampia non è un luogo complicato, è un luogo che ha i suoi difetti ma anche tante potenzialità. Non puoi andare lì a fare delle cose solo per metterti delle medaglie. A Scampia ci sono bambini che hanno bisogno del mio lavoro come qui.

«Qui ci sono delle problematiche, lì delle altre. Lì alcune situazioni non esistevano proprio, qui esistono situazioni complicate; lì alcune situazioni si risolvevano in 30 secondi, qui si finisce con la carta bollata. Lì i bambini avevano un’autonomia caratteriale spiccata, qui ci sono bambini che non ce l’hanno. Lì i bambini andavano a fare la spesa a 7 anni e accudivano la sorellina più piccola, qui ci sono bambini che a 12 anni non si sanno allacciare ancora le scarpe.

«Non accetto il discorso delle differenze se non nella misura in cui ci sono le differenze tra le persone. Scampia deve essere riconosciuta come parte del territorio della città di Napoli. Chi dice che è altro e le attribuisce delle differenze, anche involontariamente pensa sempre che siano differenze negative».

L’insegnamento di Scampia

Cosa le ha insegnato lavorare a Scampia?

«Scampia mi ha insegnato che a parlare con le persone le cose si risolvono, ad alzare il telefono e a capire che c’è molta più gente di quanta immagini che vuole lavorare con te, che ti vuole dare una mano, se tu la vuoi, che c’è molta gente anche più brava di te che ti può insegnare molte cose. Scampia è un luogo che ho rispettato e da cui sono stato rispettato sempre. In undici anni non c’è mai stato un episodio di violenza.

«Sa perché? Perché ho sempre tenuto la porta aperta. Ero disposto ad ascoltare tutti. Capitava pure che qualcuno venisse un po’ agitato, ma dopo mezz’ora finiva a baci e abbracci. Qui al Vomero magari vengono agitati uguale, ma dicendo ‘lei non sa chi sono io’, però vanno via dicendo ‘io so chi sei tu’. La presidenza diventa il luogo della compensazione, dove c’è ascolto e si fanno cose condivise».

Belvedere. Orologio

È un modello di scuola che suona alquanto insolito, non trova?

«L’idea di fondo che ci accompagna è che se vieni da me allora devi pensare che tra me e te è come se ci fosse un cesto: io ci metto qualcosa, ma devi farlo anche tu. Se tutti ci mettiamo qualcosa, allora poi diamo il cesto al bambino che lo può utilizzare, ma se c’è contrapposizione tra me e te allora torni a casa senza risolvere niente. Il bene di tuo figlio è un altro. E devo dire che questa modalità funziona».

È andato per scelta a Scampia?

«Sì».

La scelta del Vomero

E perché se ne è andato per venire al Vomero?

«Erano passati 11 anni… ad un certo punto pensavo che venivo visto solo come una persona che stava a Scampia e che per questo era un martire. Mi pesava. Scampia non era valorizzata, venivo valorizzato solo io. Scampia ha dato forse a me molto più di quanto io abbia dato a lei: dovevo andarmene perché Scampia doveva uscire fuori senza di me e io dovevo capire se sapevo fare delle cose anche fuori da quel contesto. E così sono venuto qui».

Non esiste l’uomo solo al comando

E come ha trovato la Belvedere? Si racconta che prima che arrivasse lei la scuola fosse completamente diversa, che abbia vissuto un periodo molto buio.

«Guardi, queste sono narrazioni molto semplicistiche. Ci sono stati certo dei cambiamenti, ma l’uomo solo al comando non esiste, basta avere fiducia negli altri. Le persone che lavoravano qui erano le stesse e non è che i docenti vanno a simpatia o antipatia o sanno fare più cose rispetto a due anni fa.

«Diciamo che il nostro sistema è soprattutto un sistema di relazioni. Per esempio, qui, invece di fare tanti corsi di aggiornamento di tipo contenutistico o settoriale in relazione alla disciplina, si fanno corsi di aggiornamento con psicoterapeuti sulle relazioni, sullo stare insieme.

«Quando in classe c’è una difficoltà – ormai lo sanno anche i genitori – si ferma tutto e ci si mette in cerchio per parlarne: se c’è un problema, siamo tutti parte di quel problema. Non si risolve nessuna situazione o problema senza coloro che hanno la difficoltà.

«La verità sa qual è? Che siamo bravi a parlare dei bambini, ma non parliamo mai coi bambini e soprattutto non li facciamo mai parlare. Non utilizziamo la loro grande capacità di risolvere i problemi, di capire molto prima di noi, di sentire l’amicizia, la non amicizia, il rispetto».

La scuola media è tarata sulle relazioni

A proposito di questo: al ritorno dalle vacanze di Natale lei ha scritto una lettera bellissima ai ragazzi, che ha pubblicato sul sito. Dice loro che sono più dei voti che prendono e gli augura un anno “in cui i grandi vi ascoltino, capiscano e imparino quanto siete bravi, in cui possano trovare del tempo da passare con voi, in cui parlino con voi e non di voi tra loro e comprendano quanto hanno bisogno di voi. Gli adulti nella pratica non sono tanto bravi. Mi mancate”. Una critica al mondo degli adulti?

«La lettera è il senso della nostra scuola. I bambini e i genitori sono due realtà diverse. Ognuno di noi riproduce un modello, gli stessi genitori spesso non pensano a quello che servirebbe al loro figlio ma alla narrazione che hanno di lui, ma anche i genitori vengono da una narrazione altra.

«Il problema sa qual è? È che la società conosce poco della scuola e questo è colpa della scuola, che ha raccontato poco di sé, ha fatto venir fuori una serie di attività ma diffonde poco il senso vero della scuola media.

«Per esempio chi sa che la scuola media non è una scuola tarata sui contenuti ma sull’educazione ai diritti, sulla formazione del cittadino, sulla pari dignità formativa delle discipline? Sono concetti che non sono passati perché forse non sono passati per intero neanche nella scuola».

La trasformazione dei bambini

In effetti, nonostante nella scuola media si entri bambini e si esca adolescenti è un percorso di studi che sembra molto sottovalutato. È così?

«Ci sono fasi della vita dei bambini che sono di imprinting massimo, come i primi 3 anni della scuola dell’infanzia, per cui sarebbe bene che questa fosse obbligatoria fino ai 6 anni. La verità è che fino ai 13 anni c’è una trasformazione copernicana alla velocità della luce. Alla scuola media, i bambini passano da un sistema scolastico con 3 maestre ad uno con 10-11 maestre e vi si devono abituare. Devono essere attrezzati, molto più sul piano relazionale che su quello contenutistico.

«Nella scuola media c’è una enorme trasformazione fisica, culturale, ideologica, economica, emotiva, razionale. Voi ci consegnate bambini e noi vi riconsegniamo uomini e donne. Capirà che il compito dei docenti è alto, soprattutto sul piano relazionale. In fondo, quando cresciamo ricordiamo non più del 30% di quello che abbiamo imparato, ma ricordiamo le relazioni. Dipende anche da come lavorano i genitori sulle relazioni…».

Belvedere. Aula

La fiducia

Tra le relazioni c’è sicuramente la fiducia. Come si insegna ai bambini a fidarsi degli adulti?

«Non c’è nessuna possibilità di insegnare una cosa a una persona se non c’è una buona relazione con lei. La persona che ho davanti mi ascolta se sente che è importante per me. Se voglio che si fidi di me non devo deluderla, devo mantenere le promesse, dedicarle attenzione, ascolto.

«È difficile rispondere a questa domanda. Non c’è un rapporto diretto di causa effetto, è un insieme di relazioni, torniamo sempre lì. Vado anche io in classe a chiacchierare con loro, non spiegando come si fa, ma raccontando di me, e loro improvvisamente mi raccontano qualcosa di loro. È difficile insegnare la vita, è difficile spiegarla, e poi anche io da ragazzo, quando qualcuno mi spiegava come si faceva, chiudevo le orecchie».

E il sistema funziona?

«Evidentemente sì, perché quest’anno c’è una massa incredibile di persone che mostra di fidarsi di questa scuola».

In termini di iscrizioni, intende? Sono aumentate?

«Sì, ho già superato la possibilità di accoglienza, che è di circa 250 bambini».

Il criterio della lontananza

E come farà?

«Non esiste il concetto di platea e allora mi sto scrivendo di giorno in giorno, di tutti i nuovi iscritti, il numero di telefono e la provenienza. Il primo criterio che utilizzerò sarà quello della lontananza: si presuppone che il bambino vada a scuola da solo, a piedi, che sia autonomo, e se abita a Marano, a Piazza Carlo III, a via Epomeo, Piazza Sannazzaro o a San Martino è illogico che venga qui e non vada in una scuola più vicina. Andare a piedi a scuola è un valore che non si può sottrarre ai bambini».

È una bella soddisfazione questo straordinario aumento delle iscrizioni, no?

«Sì, però l’effetto collaterale è che debbo dire no a qualcuno e questo non mi piace. La cosa che un po’ mi salva è che il no lo dico al genitore, ma in pratica è come se qui davanti avessi un bambino che mi dice ‘voglio venire nella tua scuola perché l’ho scelta’ e io gli dovessi dire che non può. Mi dà un dolore grandissimo».

La scelta delle sezioni

All’atto dell’iscrizione i genitori indicano anche preferenze per le sezioni in cui inserire i propri figli?

«In questa scuola non possono».

Nelle altre sì?

«Non lo so. In questa scuola no. Pare che prima si potesse, adesso no. Ma non è l’unica richiesta che fanno. Vengono a chiedere di mettere il proprio figlio con altri compagni, anche sette o otto, si preoccupano che non stia solo, oppure chiedono che non stia insieme ad altri due o tre…. ricevo richieste di tutti i tipi. Molti genitori all’atto dell’iscrizione è come se volessero già in anticipo far percorrere una strada precostituita ai figli.

«Io dico sempre che li capisco, che il diritto all’ansia è riconosciuto dall’articolo 34 e ¾ della Costituzione, come il binario di Harry Potter ma che i loro figli saranno come saranno, non come vogliono loro. I genitori devono solo scegliere una scuola di cui si fidano, dove sanno che i loro figli possono giocarsela fino in fondo».

Belvedere. Aula

Le preferenze per gli amichetti

E non tiene in conto neanche le preferenze per i compagni?

«Oddio, non è che siamo talebani! Partendo dall’idea che un bambino ha uno o due amici del cuore, e non ne ha certo 27, se si tratta di un paio di preferenze non c’è problema, ma di più no. Sa chi mi dà la forza di fare questi discorsi? I bambini. Tra un genitore e un bambino io scelgo sempre il bambino. La scuola non deve accontentare, ma prendersi una responsabilità. Se il genitore condivide la nostra idea di scuola e mi affida suo figlio, bene, altrimenti non può funzionare.

«Questa è la nostra idea di scuola, la testiamo giorno dopo giorno e vediamo che funziona. Qui in presidenza ho una frase di Platone che dice: ‘Non so quale strada porti a una vittoria certa, ma so quella che porta a una sconfitta sicura, il voler compiacere chiunque’.

I bambini non hanno sovrastrutture

«Questa cosa di non accettare troppe preferenze me l’hanno insegnata i bambini. A volte mi è capitato di dimenticarmene qualcuna e di non tenerne conto e le mamme venivano qui disperate a lamentarsi. Le rimandavo a uno o due giorni dopo e, passato questo tempo, i bambini non volevano più muoversi dalla classe in cui erano finiti.

«I bambini non hanno sovrastrutture mentali, se il mondo fosse governato dai bambini sarebbe tutto più semplice. Perché non utilizzare nella scuola questo grande patrimonio che è la capacità dei bambini di stare insieme e di risolvere i problemi e vivere insieme molto meglio di come possiamo farlo noi adulti? La scuola non deve spiegare la vita ai bambini, ma creare le condizioni perché loro facciano le proprie scelte in piena libertà e consapevolezza, renderli autonomi, e anche consapevoli del fatto che si possono fare, col senno di poi, le scelte sbagliate».

E quando le arrivano iscrizioni dallo stesso istituto e dalla stessa classe, anche senza preferenze, lei come si regola?

«Divido i bambini. Abbiamo criteri precisi per la formazione delle classi. Le classi non hanno più di 25 alunni, perché la qualità deve essere alta; ci deve essere un uguale numero di maschi e femmine; i bambini H devono andare in classi più piccole; i bambini Dsa non devono essere nella stessa classe dei bambini H; occorre una equa distribuzione nelle prime dei bambini Dsa; i bambini non devono provenire tutti dalla stessa sezione».

La seconda lingua

Un’altra cosa che differenzia la Belvedere dalle altre scuole è che c’è una predominanza di classi che come seconda lingua fanno francese, e non spagnolo, che è quella più richiesta. Come mai?

«C’è una scelta ben precisa, dietro. Anche se teoricamente la scuola è il luogo dei bambini, è anche il luogo dove sono sacrosanti i diritti dei grandi: da questa scuola, per scelte precedenti, quest’anno escono 9 terze di francese dietro alle quali c’è l’organico di diritto dei docenti, con la loro cattedra e la loro sede. Ciò obbliga la scuola a far entrare 9 prime di francese e questo anche se il territorio non avesse richieste di francese, poiché l’esigenza prioritaria è il diritto del docente a conservare la cattedra e la sede.

«Quest’anno, data l’enorme richiesta, facciamo una classe in più e su questa nuova prima, avendo competenza di scegliere, abbiamo scelto lo spagnolo. Morale della favola: due prime e 50 bambini faranno spagnolo».

E come farà rispetto a tutte le richieste che arriveranno?

«Come l’anno scorso, quando mi sono messo al telefono tutto il mese di giugno, ho chiamato i 120 genitori che avevano scelto lo spagnolo e ho spiegato loro la situazione. Gli ho spiegato che nel cammino della scuola media, in cui c’è questa esplosione sociale, culturale, questo incontro con 10 docenti diverse, due ore di una lingua piuttosto che di un’altra non mi sembrava avessero un peso rispetto all’acquisizione di un contenuto. Perché diciamoci la verità: la lingua non si impara a scuola.

«Se veramente vuoi imparare lo spagnolo offriamo anche i corsi pomeridiani. Moltissimi mi hanno risposto che non c’erano problemi a cambiare, altri hanno risposto ‘o spagnolo o morte’. E così sono riuscito a cominciare l’anno scolastico. Non ho scontentato nessuno, ho chiesto. Nel caso non avessi quadrato i numeri avrei chiamato tutti e fatto un sorteggio, ma separando gli amici e innescando altre dinamiche».

Cioè lei si è preso la briga di chiamare tutti i genitori ad uno ad uno?

«Ebbene sì. Ma quello che fai è quello che poi ti torna. L’ho fatto volentieri».

La musica

Mi diceva, prima, che uno degli assi portanti della scuola è la musica, eppure la Belvedere non ha una sezione musicale come tante altre scuole.

«Sì e dietro c’è una scelta ben precisa. La scuola non alleva musicisti ma la musica ha una grande potenza formativa che vogliamo cogliere: è portatrice di benessere, è capace di tirare fuori molte cose dai ragazzi, anche in termini di capacità di scrittura e tutti i ragazzi devono entrarvi in contatto. E allora tutti i ragazzi di questa scuola suonano che non vuol dire che sono artisti, ma che leggono la musica.

«Non alleviamo musicisti ma offriamo delle opportunità a chi voglia diventare bravo con la musica: ad esempio il pomeriggio c’è un grande direttore di orchestra che insegna pianoforte, il maestro De Liso, direttore del Festival di Salisburgo. Insomma, se vuoi diventare un vero pianista, puoi».

La scuola come punto di incontro

Ai ragazzi offre anche tante altre opportunità. So che ha lanciato due proposte, ultimamente…

«Sì, ho proposto ai ragazzi, il pomeriggio, invece di andare in giro senza una meta, di venire a scuola per bere una Coca Cola insieme, fare due chiacchiere, leggere un libro o giocare a un gioco da tavola. Non vengono a frotte, ma almeno gli do la possibilità di farlo.

«Ho anche suggerito loro di organizzare qui le feste di compleanno: io gli do l’aula, loro possono ballare, cantare e suonare e in modo gratuito, così le mamme non possono trincerarsi dietro l’alto costo delle feste per escludere qualche compagno, che è una cosa pessima. Ci sono solo due condizioni: che puliscano l’aula in modo da lasciarla in ordine per il giorno dopo e che non utilizzino i cellulari, perché una festa deve essere prima di tutto condivisione».

La disponibilità dei docenti

Per rendere la sua scuola così aperta e ricca di opportunità deve circondarsi di docenti molto disponibili…

«Vede, quando si crea un sistema condiviso, in cui si sta bene come persone e quindi anche dal punto di vista professionale, tutto diventa più facile. Funziona così anche su di me: quando io sto bene sono molto più disponibile, mi ricordo e scopro di sapere più cose di quanto immaginassi, e anche di saper fare molte più cose; quando sto bene e vedo che un altro ha fiducia in me, è come se mi sollevassi da terra.

«Siamo fatti così: abbiamo bisogno di avere fiducia. E se ne abbiamo bisogno noi grandi, si figuri i bambini. La scuola ha molte responsabilità rispetto al fatto che questa cosa manchi. Si parla troppo di voti, di giudizi…».

Crede che quando andrà via, il sistema che ha creato resisterà?  

«Lo scopriremo quando me ne andrò. Ma se il sistema funzionava solo perché c’ero io allora non funzionava: il sistema deve funzionare come sistema, indipendentemente dalla persona. Io sento che è un sistema consolidato. Sa, durante le vacanze natalizie un papà è venuto da me a raccontarmi che nella classe del figlio la professoressa aveva detto ‘non vi preoccupate, voi non siete i voti che prendete’. Quello che ho scritto io nella lettera, glielo ha detto la professoressa. Come vede…».

Belvedere. Bullismo

Il senso di inadeguatezza dei ragazzi

Preside, ma quali sono i disagi più grandi degli adolescenti di oggi? Lei fa un grande lavoro col bullismo. È davvero così diffuso?

«Il bullismo va dal ‘mamma Ciccio mi tocca’ fino alla vessazione. Non tutti sanno che ci devono essere degli elementi ben precisi per definire un atto di bullismo: la ripetizione continua dell’azione, la volontà di farlo, la vessazione e il farlo in gruppo. Credo che il disagio maggiore nei ragazzi, oggi, sia il loro senso di inadeguatezza. Spesso c’è una grande forbice tra quello che i genitori pensano che i propri figli siano e quello che invece essi realmente sono o vogliono essere.

«I genitori spesso e volentieri, quando nascono i bambini, gli mettono un bolino: Sannazzaro, liceo classico, liceo scientifico, ingegnere perché io sono ingegnere, roba del genere. Ma anche noi genitori dobbiamo imparare che i bambini sono persone.

«Dobbiamo costruire le condizioni perché loro si esprimano al massimo, accettare che siano diversi da quello che pensiamo, accettare una diversità sessuale, di interessi. Accettare la diversità dei bambini: questo è un patrimonio. Non si tratta di spiegare il teorema di Pitagora, è ben altro».

Belvedere. Omofobia

La scuola che non parla degli insuccessi

È qualcosa che deve fare la scuola?

«Tutti insieme. Noi però dobbiamo fare una cosa che la scuola non fa mai: parlare delle nostre incapacità, di quello che non siamo riusciti a fare. La sfido a partecipare a un convegno in cui la scuola faccia un elenco delle cose che non è stata capace di fare tra quelle che si era ripromessa. Non esiste. Eppure che c’è di male? Quando la scuola capirà che deve mettere avanti non quello che fa, ma quello che legittimamente non è stata capace di fare, per una serie di condizioni, allora avrà fatto un salto di qualità fino alla luna. Ma fin quando si fa un discorso corporativistico, si dà il destro a una gran parte di persone non adeguate di nascondersi. Non va bene, perché un conto è un ufficio postale e un altro la scuola.

«Molte contraddizioni che vive la scuola sono vissute sulla pelle dei bambini che hanno invece diritto a qualcosa di più vero. Ecco perché dobbiamo lavorare tutti  giorni. Nessuno ha la bacchetta magica, la scuola non risolve problemi. A Scampia la frase più bella che ho sentito è stata ‘Preside, fate voi, ci fidiamo di voi’. Qua invece è un po’ più complicato, ma ci stiamo lavorando».

Dalle sue parole il Vomero e Scampia sembrano due contesti diversi ma quasi altrettanto problematici.

«Scampia ha un vantaggio, quello di sapere di essere un luogo che ha un disagio sociale: lo sa, lo accetta e non ha paura di dire ‘datemi una mano’. Qui è diverso: ci sono dei mali sociali profondi che non si accettano perché letti come incapacità. Si dice: ‘Ma come, io faccio l’architetto, il professore universitario, il magistrato e tu mi dici che non sono capace di gestire un problema? Sei un presuntuoso’. Poi però si finisce sul lettino dello psicologo. Sono situazioni diverse».

Le chat whatsapp come male del secolo

Veniamo ad un altro fenomeno che per altri versi fa pensare al lettino dello psicologo: le chat whatsapp. Come fare a sconfiggerle?

«È un problema che riguarda più le mamme, perché i papà in gran parte delegano. All’ingresso della scuola ho scritto una frase: ‘Se gli assistenti sociali leggessero le chat delle mamme toglierebbero i figli ai genitori’. Le chat sono il male del secolo. L’altro giorno, in consiglio di istituto, ho detto che è una vergogna. Molte mamme me le fanno anche leggere perché si stanno accorgendo poco alla volta che è veramente pazzesco. È il 2.0 del telegramma senza fili che si faceva da bambini, quando si iniziava da una parola e si stravolgeva completamente il senso.

«È il modo in cui i genitori, oggi, cercano di controllare i figli, il modo che hanno trovato per essere presenti nella loro vita, perché, magari, i figli a scuola stanno benissimo e loro devono entrarci di forza. A Scampia per esempio tutto questo non c’è: le mamme non hanno tempo da perdere. Il bambino non ha fatto un compito? Un bello schiaffone e la prossima volta lo farà.

«Non è che voglio istigare alla violenza ma bisognerebbe tirar fuori l’aspetto pedagogico dallo schiaffo dato senza cattiveria. Spesso non c’è bisogno di parlare tanto. Questo continuo parlare è il male della società.

«Per la mia cultura, però, cerco di tenere conto di ogni cosa. E allora, qual è il problema: il whatsapp delle mamme? Non lo posso evitare, perciò costruisco situazioni in cui loro stesse si devono rendere conto che hanno fatto qualcosa contro i loro figli. Ho creato un’app della scuola, Tfn, a cui molti si sono registrati. Ogni tanto mando un messaggio: ‘Anche questa volta avete perso un’occasione’. E dalle e dalle, magari capiscono. Lo faccio per i bambini, perché vedo che sono in pericolo».

Belvedere. Targa

‘Sono napoletano e antijuventino’

Lei sa che il Napolista è un sito che si occupa molto di sport. È tifoso del Napoli?

«Certo! Soprattutto antijuventino. Io coi ragazzi vado a vedere la partita! Spero di riuscire a portarli allo stadio contro la Juventus, che mi diano i biglietti. E chi se la perde! Sono del Napoli di Maradona, di Sacchi, Van Basten, Gullit…».

Allora sarà contento del ritorno di Maradona a Napoli…

«Del Maradona calciatore ho una venerazione totale, poi le scelte che ha fatto come uomo sono sue…».

Mi riferisco più che altro all’aria di diffidenza che ha sempre caratterizzato i rapporti tra il Napoli di De Laurentiis e Maradona che invece adesso sembrerebbero essere più distesi…

«Guardi, questa è la parte del calcio che mi interessa meno. Ricordo la passione, l’amore per la squadra, il dolore per la sconfitta e la gioia della vittoria, venire poi a sapere, dopo, che le partite erano vendute, mi ha dato un dolore. Ci mettevo la passione del tifoso, un sentimento, e poi ho scoperto che questa è la parte più debole della catena. Mi hanno sottratto sentimenti e ne sono stato segnato. Adesso vedo la partita e sono contento, punto. Del resto non mi interessa, me ne devo tenere lontano. Non posso rischiare ancora una delusione».

‘Se il Napoli fosse veicolo di sport mi piacerebbe più che se vincesse scudetti’

Secondo lei il Napoli è una squadra adolescente o matura?

«Il Napoli dovrebbe incontrare di più i bambini, dare loro più spazio e attenzione: imparerebbe molto. Se il Napoli fosse veicolo di sport mi piacerebbe più che se vincesse scudetti. Il calcio è un grande sport, con valori forti e una potenza educativa fortissima e invece questa cosa si è un po’ persa. Io amo il calcio, lo sport, ci ho giocato per tanti anni, amo la sensazione di entrare in campo, la vittoria, il pianto della sconfitta, la stretta di mano all’avversario, la mala parola all’arbitro, anche l’ingiustizia.

«Ecco, un’altra cosa fondamentale è educare i ragazzi all’ingiustizia perché devono saper gestire anche una situazione in cui pensano di aver subito un’ingiustizia e vedere le cose da un altro punto di vista. Il calcio può insegnarlo, invece questa modalità di andare a vedere gli arbitri chi favoriscono… mi preoccupo dei bambini: quale messaggio dà il calcio ai bambini?».

 

 

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