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Il maschilista Trump si è affidato a una donna (con madre italiana) per vincere le elezioni

Non è Trump il problema delle donne, ma sono alcune donne a rappresentare un problema anche per le altre

Il maschilista Trump si è affidato a una donna (con madre italiana) per vincere le elezioni

Donald Trump, l’imprenditore arciricco appena eletto Presidente degli Stati Uniti, considerato da gran parte della stampa e dell’opinione pubblica razzista e sessista, noto soprattutto per aver detto – in una conversazione privata mentre veniva accompagnato ad una trasmissione televisiva – che quando sei famoso puoi fare ciò che vuoi delle donne, anche “prenderle dalla figa”, il nemico numero uno delle femmine di tutto il mondo, insomma, ha vinto grazie a… una donna.

Ebbene sì. Insieme a lui, alla guida della campagna elettorale presidenziale, c’è stata Kellyanne Conway, che tutto sembra tranne che una delle donne sottomesse e sensibili al fascino del dollaro che secondo tanti, popolerebbero il mondo e l’immaginario di Trump. Anzi, questa donna, che ha iniziato a lavorare poco più che adolescente e che vanta nel suo passato diversi incarichi professionali, può essere considerata il prototipo dell’emancipazione femminile.

In Italia, a dare uno sguardo in rete, solo due siti di informazione hanno riportato quella che a noi sembra La notizia: Yahoo notizie, il 9 novembre scorso e Aska news, ieri. Vediamo dunque chi è questa traditrice delle femmine tutte.

Kellyanne Conway

Kellyanne Conway nasce il 20 gennaio 1967 a Camden, nel New Yersey, da padre irlandese proprietario di una piccola azienda di autotrasporti e madre italiana impiegata di banca. Il suo cognome da signorina è Fitzpatrick. I genitori divorziano quando lei ha solo tre anni, così la piccola Kellyanne cresce con la mamma, la nonna e due zie nubili: quattro donne cattoliche italiane la rendono ciò che è oggi. Quando è ancora molto giovane e impegnata negli studi, lavora per otto estati in una fattoria dove si coltivano mirtilli, ad Hammonton. È qui che, a suo dire, impara l’etica del lavoro e tutto ciò che riguarda la vita e le imprese.

Si laurea presso la St. Joseph High School nel 1985, nel 1989 riceve il Bachelor in Scienze Politiche presso il Trinity College di Washington, nel 1992 consegue un J.D. (diploma per l’esercizio della professione legale) alla George Washington Law University, poi inizia a collaborare con un giudice di Washington e per quattro anni è professore associato alla stessa Università.  Ad un certo punto decide di diventare una sondaggista presso alcune società private fin quando, nel 1995, compie il grande passo e fonda una società tutta sua, la Polling Company, con cui si occupa soprattutto di studi sulle tendenze femminili.

Prima di incontrare Trump, Kellyanne lavora per Jack Kemp, membro del Congresso, per il senatore Fred Thompson, per l’ex vice presidente Dan Quayle, per l’ex speaker della Camera Newt Gingrich e per Mike Pence, oggi vicepresidente degli Stati Uniti. Diventa co-direttrice della campagna elettorale di Trump in agosto, nel momento in cui i sondaggi danno Donald sotto, rispetto alla Clinton, di dieci punti percentuali. Conosce Trump nel 2006, perché vive in uno degli edifici di proprietà dell’imprenditore (fa anche parte del consiglio di condominio del Trump World Tower di Manhattan). Dopo qualche anno dal primo incontro, Trump la contatta e le chiede di aiutarlo nella campagna elettorale.

Sposata con l’avvocato newyorkese George T. Conway III dal 2001, la Conway, al secolo Fitzpatrick, con la vittoria di Donald Trump, è diventata la prima donna nella storia degli Stati Uniti a gestire una campagna presidenziale vittoriosa.

In America si dice sia stata lei l’unica in grado di tenere a bada il neo eletto presidente e che sia stato in gran parte suo il merito di avergli conquistato il favore di tanta parte dell’elettorato femminile.

Lo sprezzo delle giornaliste

A leggere i principali quotidiani americani di questi giorni, però, Trump continua ad essere identificato come il male assoluto e sono tantissime le commentatrici che non si capacitano del voto femminile a suo favore. Di Kellyanne, in queste analisi, manco a dirlo, non c’è traccia, come se non esistesse, anzi, come se la presenza di una donna dietro le quinte della vittoria fosse tanto inammissibile da essere del tutto cancellata.

Jill Filipovic, giornalista che vive tra New York e Nairobi, sul sito della Cnn liquida la percentuale di donne che ha votato per Trump rappresentandole come “soprattutto conservatrici, evangeliche, ultra quarantacinquenni e prive di laurea”, donne per le quali l’autorità patriarcale “è una norma evangelica e un valore conservatore”, casalinghe e mamme che “dipendono dal reddito del marito”. La Filipovic spiega che “la visione evangelica conservatrice d’America, così integrata nel partito repubblicano, vede le donne bianche come delicate, materne e dipendenti, non autorevoli e potenti. Trump lo sa, e gioca su questo razzismo di genere”. In definitiva, la giornalista, nel liquidare il risultato elettorale, ci tiene a salvare il femminismo. Scrive infatti che la vittoria di Trump non decreta il fallimento del femminismo ma un chiaro segno che il movimento femminista ha ancora molta strada da compiere e che “la razza rimane una potente forza di motivazione” anche se gli uomini sono più a disagio con l’autorità femminile. E dice ancora:

“Molte donne bianche sceglieranno l’autorità e la protezione degli uomini piuttosto che le responsabilità e i doveri che provengono dalla vera libertà”.

Come se fare le mamme e le casalinghe fosse quasi una colpa, come se per il solo fatto di aver scelto questa strada le donne debbano essere considerate deboli, sottomesse ai mariti e ai padri.

Per note opinioniste le donne che hanno votato Trump sono razziste

Fa peggio L.V. Anderson, editore associato della rivista di stampa liberale Slate, che chiama in causa addirittura l‘aborto citando la recente stima del Guttmacher Institute, secondo cui una donna americana su tre avrà un aborto durante gli anni favorevoli alla riproduzione. Secondo la Anderson, anche le donne che hanno votato Trump ne avranno bisogno, prima o poi, perciò sono colpevoli “della peggior specie di egoismo”. E liquida il tutto scrivendo che la ragione più grande e più triste per cui le donne bianche hanno scelto Trump su Clinton è il razzismo: le donne bianche, in pratica, secondo lei, hanno deciso che difendere la propria posizione di potere come donne bianche fosse più importante che difendere il loro diritto a riprodursi, la loro autonomia sessuale, il loro accesso all’assistenza sanitaria, i congedi familiari e la custodia dei bambini. Le donne bianche che hanno votato Trump sarebbero colpevoli, per lei, di aver scelto di avere il rispetto dei loro padri, fratelli e mariti arrabbiati bianchi piuttosto che il rispetto di tutti gli altri appartenenti al genere umano. Le donne bianche, quindi, dovranno convivere con le conseguenze delle proprie azioni in un paese senza un diritto all’aborto, senza accesso alle assicurazioni sanitarie, senza un’adeguata politica di congedo familiare, “e con un capo di stato che le valorizza solo in quanto vuole scoparsele”.

Siamo in presenza di donne che, come spesso accade, ammazzano virtualmente altre donne, denigrandole, definendole talmente diverse da loro da non riconoscerle quasi come esponenti dello stesso sesso, pur di rendere indelebilmente giusto l’assioma che hanno in testa: Trump = porco. Senza soluzione.

Mai una domanda su Hillary

Nessuna di loro prende neppure lontanamente in esame un’ipotesi banalissima, e cioè che Trump sia stato più votato perché, semplicemente, la Clinton non piaceva quanto lui. Insomma, che Trump fosse addirittura il meno peggio. Da un’analisi anche approssimativa degli exit polls che si trovano sui giornali statunitensi, infatti, a parte l’identikit dell’elettorato che ha scelto Trump (che sarebbe, per il 42% composto da donne, per il 58% formato da bianchi dai 45 agli over 65, di istruzione superiore e con un reddito compreso tra i 50mila e i 100mila dollari e superiori), emerge soprattutto un dato: il 51% delle persone che ha dichiarato di aver votato per Donald Trump, ha detto di averlo fatto perché l’altro candidato non gli piaceva. Punto.

Del resto non è poi così difficile da credere che forse Hillary non è esattamente il simbolo dell’emancipazione femminile: la Clinton si è pur sempre tenuta le corna disdicevoli del marito, con le quali è stata sulla bocca del mondo intero, e lo ha fatto per salvare il potere di famiglia e per aspirare, fino a qualche giorno fa, ad occupare quello stesso tavolo sotto cui la Lewinsky è entrata nella storia. È questo che recita di fare il femminismo? Per dirne una.

Insomma, non crediamo si faccia peccato, al di là di tutte le parole spese negli ultimi mesi, nel dire che già scegliendo Kellyanne Conway come co-direttrice della sua campagna elettorale Trump abbia già dimostrato di essere ben lontano dal considerare le donne una razza inferiore: è nelle mani di una di esse che ha messo il suo futuro ed è lei ad averlo portato alla vittoria. Ma forse aveva ragione lui già nel marzo scorso, quando, in uno dei suoi amati e frequenti tweet, scrisse:

“I media sono molto più indietro di me, sulle donne”.

Nelle parole delle giornaliste donne riportate, in effetti, sembrerebbe così.

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