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Il Leicester ha vinto perché non ha rispettato il fair play finanziario. Come il Napoli di Maradona

Prendi le regole del fair play finanziario, mettici come contorno la vittoria (giustamente) ultracelebrata del Leicester City, ed ecco pronto una ricetta perfetta che afferma e corrobora i regolamenti introdotti dall’Uefa per rendere più trasparenti e sostenibili i bilanci dei club europei. Vero, ma fino a un certo punto. Cerca di spiegarlo Il Foglio, in un pezzo firmato da Luciano Capone. Il cui titolo è già da solo autoevidente: «Se i proprietari avessero rispettato il fair play finanziario i Foxes non sarebbero campioni d’Inghilterra». 

Capone e Il Foglio la toccano piano, insomma. Anzi, fanno ancora meglio con il sottotitolo: «Il patron miliardario Srivaddhanaprabha ha perso 100 milioni di sterline in pochi anni. Le regole volute dalla Uefa in realtà fanno vincere sempre le solite big». Bum. Ora, questa teoria è sicuramente borderline. Ma è comunque una chiave di lettura interessante, anche perché mette in risalto quello che possiamo definire come il lato oscuro delle regolamentazioni finanziarie volute fortemente e in seguito introdotte da Platini. Nel pezzo, queste vengono definite come «un tentativo di ridurre la disparità finanziaria tra le società e quindi aumentare la competitività».

Leggiamo ancora: «In realtà, il fantastico successo del Leicester suggerisce l’esatto contrario. La squadra è stata acquistata nel 2010 da una nuova proprietà, capeggiata da un businessman thailandese con un patrimonio di circa 3 miliardi di dollari. […] Da quando ha preso la squadra, ha investito senza badare a spese, macinando in quattro anni circa 100 milioni di perdite, oltre ai soldi sborsati per acqsuistare il Leicester. La gestione finanziaria del club è finita sotto i radar della Lega, ma gli stringenti parametri del financial fair play sono stati superati grazie a un poco trasparente accordo con una società, la Trestellar, secondo alcuni indizi riconducibile alla società, che avrebbe permesso di gonfiare i ricavi e quindi ridurre le perdite attraverso una sponsorizzazione invece che una ricapitalizzazione. In questo modo la proprietà avrebbe potuto aggirare la norma che impedisce di finanziare direttamente il deficit sponsorizzando sé stesso».

Nel paragrafo successivo, Capone allarga questa situazione un po’ ambigua anche «ad altri club in altri campionati», sottolineando quindi come il fair play finanziario, alla fine, non faccia altro che agevolare un «ristretto oligopolio di poche squadre». Perché, si legge ancora, «il vero obiettivo non è quello di mettere tutte le squadre sullo stesso livello, quanto quello di fermare la crescita dei salari e stabilizzare i bilanci riducendo quindi i fallimenti».

Gli ultimi due paradossi  di Capone, che cita anche Stefan Szymanski, economista della University of Michigan, riguardano le piccole squadre addirittura «sfavorite» dal Fpf e il Napoli di Maradona. Essendo il mercato (leggermente) più limitato, i club meno potenti non possono tirare troppo sul prezzo per i campioncini in erba che crescono o scovano. Sul gran colpo di Ferlaino, scrive invece così: «Se queste regole fossero state applicate nei decenni passati, non avremmo avuto il Napoli di Maradona, visto che il presidente del Napoli l’ha comprato a debito facendo il più grande investimento della storia del club. Fu, come quello del Leicester, un caso di “doping finanziario”, una definizione infelice di investimenti e iniezioni di capitali che, a differenza di quelle nelle vene degli atleti, non fanno male a nessuno». Se questa teoria e tutto l’articolo possono essere opinabili, su questa ultimissima frase non può esserci il minimo dubbio.

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