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Cinquant’anni fa la rivincita di Sivori su Heriberto Herrera in un Napoli-Juventus 1-0 (raccontato da Gino Palumbo)

Cinquant’anni fa la rivincita di Sivori su Heriberto Herrera in un Napoli-Juventus 1-0 (raccontato da Gino Palumbo)

Quella che riportiamo è la cronaca di Napoli-Juventus 1-0 firmata da Gino Palumbo sul Corriere della Sera di lunedì 7 febbraio 1966. È tratta dall’archivio storico del Corriere.

Otto giorni fa, rientrando da Catania, Sivori chiamò in disparte il presidente del Napoli. E a voce bassa, quasi gli facesse una confidenza o una promessa, gli disse: «Domenica, presidente, dobbiamo vincere». Fiore lo guardò sorpreso: «Lo dice a me? Dipende da voi». «Sì, lo so – ribattè l’argentino – ma lo dica lei a José: lo convinca». 

Il timore di Sivori era che Altafini, non odiando con pari intensità Heriberto, non sentisse l’impegno al pari di lui e avesse quindi bisogno di uno stimolo. E continuò: «Lo inviti a pranzo, ci inviti tutt’e due, gli parli». Fiore aveva anche dimenticato l’impegno, quando un paio di giorni dopo, verso mezzodì, li vide arrivare insieme in sede. E il brasiliano lo ringraziò dell’invito gentile che Sivori, a nome suo, gli aveva comunicato.

A tavola, la conversazione spaziò dapprima sugli argomenti più diversi – il clima, i napoletani, il panorama – poi pian piano Sivori portò il discorso sulla partita della domenica successiva. «Vedi – disse, rivolgendosi ad Altafini – la Juventus…». Il brasiliano gli interruppe la frase a metà, con una sonora risata. «Omar, io ho capito benissimo perché hai voluto organizzare questo pranzo. Non ti preoccupare, al 12’ segno io, e tu potrai vivere tranquillo e contento». 

Altafini ha sbagliato solo il momento della previsione o della promessa. Aveva stabilito che il suo gol decisivo sarebbe arrivato al 12’ e invece è arrivato esattamente dodici minuti più tardi. È stato un gol meritato, ma fortunato, nato da una incredibile sequenza di rimpalli, un’azione convulsa come convulsa è stata quasi tutta la partita. Sivori era rimasto estraneo a quella trama. Lanciandosi un attimo prima verso Anzolin, aveva perduto una scarpa e l’aveva ancora fra le mani, quando il Napoli, scatenato, tornò a rovesciarsi verso l’area di rigore bianconera. Volevano passargli la palla, ma fece cenno di darla a Canè: lui doveva prima calzare la scarpa. Da quel pallone rifiutato da Sivori è nata la vittoria che Sivori così morbosamente aspettava: picchiando fra una gamba, una coscia, un ginocchio, il pallone si offrì docilmente al piede di Altafini: e il brasiliano – proiettato da quella mischia furibonda a due passi dalla linea bianca della rete juventina – lo fece rotolare lentamente con una carezza più che con un tiro. Esiste un destino anche nel calcio: e Altafini aveva «sentito» che questa volta sarebbe stato lui a interpretarlo. «Sentiva» che sarebbe toccato a lui di porgere a Sivori quel che una città intera desiderava offrirgli a compenso del «miracolo calcistico» partenopeo di cui l’argentino è il principale artefice.

Ora sarebbe necessario «incatenare» Sivori, per impedire che l’ebbrezza del successo annebbi la mente. Ma come vi si può riuscire? Più che una partita di calcio, questa è una sfida personale. Anche la folla non ammette altre pur valide interpretazioni. E partecipa alla sfida. La partita «contro Heriberto» la giocano in novantamila. I cartelli, gli striscioni, le bandiere sono tutti dedicati a Sivori. 

Quando l’argentino è entrato in campo, ultimo della schiera dei giocatori, da Fuorigrotta si è diffuso un boato: non aveva la fascia di capitano che avrebbero voluto offrirgli perché non se l’era sentita di assumersi anche quella responsabilità. Aveva preferito che fosse Emoli a rappresentarlo in quel ruolo. Ma più che il capitano, lui in quel momento, per i novantamila di Fuorigrotta, era il Napoli, tutto il Napoli, tutto il calcio di Napoli, tutte le rivalse, le speranze, le ambizioni del foot-ball partenopeo. È un legame persino assurdo, smisuratamente esasperato, incredibile: ma rappresenta la realtà. La partita, a tratti, è apparsa persino come un pretesto per consentire alla folla e a Sivori di parlare fra di loro: il pubblico di Napoli ha mai trovato, prima d’ora, un calciatore che sapesse interpretarne altrettanto bene, e forse anche stimolarne, la passione. Vinicio, che pur fu idolatrato, era più schivo di Sivori nel rapporto con la platea. Quando l’argentino – come fa sempre – prima che la partita cominci, calciò il pallone verso la porta, ancora incustodita, per un gol ben augurante, e avendo sbagliato la mira si strinse la testa fra le mani, con un gesto di disperazione, quasi avesse sbagliato un gol vero, dalle scale gli fece eco un urlo di disappunto. E quando entrò in campo Heriberto – anch’egli legato alla scaramanzia di apparire per ultimo, due o tre minuti dopo l’ingresso delle squadre – dalle tribune vennero giù rabbiose bordate di fischi, invettive, arance, persino una scarpa. Ai napoletani Heriberto, per la verità, non ha fatto alcunché di male: a Fuorigrotta, peraltro, non lo avevano mai visto. Ma lui è quello che ha «fatto male» a Sivori. Doveva scontarlo. 

In questa eccitata atmosfera come si fa a pretendere che Sivori stia calmo? Quando il pallone di Altafini entra in rete, l’argentino sta ancora camminando con la scarpa in mano: e va ad allacciarsela proprio davanti alla panchina di Heriberto, proprio di faccia al suo «nemico», dopo di essersi piantato dinanzi a lui, senza guardarlo, rispondendo con le braccia alzate e i pugni chiusi all’ovazione della folla. Heriberto, seduto a testa china, sembra ai suoi piedi, come un toro trafitto da Manolete trionfante. Che importa se, frenato dall’inevitabile nervosismo, Sivori non sta giocando benissimo? L’importante è che vinca la sfida. E quando vi è da perde tempo, perché il Napoli è ridotto virtualmente in dice uomini dalla mezz’ora per un infortunio a Bean, e l’offensiva juventina – seppur sterile – si fa assillante, e la gente sulle tribune trattiene persino il respiro, Sivori se deve mandare il pallone in fallo laterale qualche pallone, lo lancia verso la panchina dove siede Heriberto. 

Sono atteggiamenti smodati, anche di cattivo gusto, ma rientrano nella inevitabile scenografia di novanta minuti che, per Sivori, sono diversi da tutti quanti gli altri.

Solo a gioco ormai finito sarà possibile «incatenare» l’argentino. Lui vorrebbe incrociare Heriberto lungo il terreno del campo, ed Heriberto non si sottrae all’incontro: la distanza tra i due si raccorcia sempre più. Di chi è la felice idea di mandare tutti i compagni intorno a Sivori, affinché lo fermino per fargli festa e lo nascondano in un abbraccio collettivo?

Sfollando, qualcuno chiede dell’Inter, del Milan. Per 90’ i napoletani hanno dimenticato anche la classifica per schierarsi al fianco di Sivori. Ora è come se fosse finito un incubo. Si ricomincia a parlare del Napoli e delle sue speranze. La prima grande partita a Fuorigrotta è vinta. Nel primo tempi gli azzurri hanno giocato splendidamente. Nella ripresa – perduto un uomo – si sono difesi con ordine e vigore. La folla già imposta i programmi futuri. Domenica il Bologna, poi a Brescia, quindi viene il Milan…

Il gol di Altafini è stato fortuito, ma la vittoria del Napoli è legittima. La Juventus lamenta un atterramento di Leoncini, che certo Gonella avrebbe punito con un rigore: ma è troppo poco per ritenere ingiusta una sconfitta subita con una squadra che, per un’ora su 90’, ha giocato in dieci uomini, con Bean penosamente saltellante all’ala, come avesse le stampelle. La Juventus ha premuto quasi incessantemente nella ripresa, allorché il Napoli si è accartocciato: ma l’unica azione pericolosa – tiro di Menichelli su punizione di Del Sol – l’ha neutralizzata con uno splendido intervento l’eccellente Bandoni. E se sul piatto della bilancia si pone la superiorità netta che il Napoli manifestò fin quando non si avvertirono le conseguenze dell’infortunio a Bean, ci si accorge che la Juventus non può cercare attenuanti valide: non è colpa del Napoli se la squadra bianconera – afflitta dalla ormai cronaca sterilità della sua prima linea – non sia riuscita a sfruttare la favorevole situazione che la partita le ha offerto, e che almeno un pareggio avrebbe potuto consentirle. Non c’è mai, nelle azioni dell’attacco bianconero, un passaggio che smarchi un uomo, l’ultimo passaggio, quello che suggerisce o propizia il tiro o il gol.

Il suo diritto alla vittoria, il Napoli lo maturò nel primo tempo, che fu quello dell’entusiasmo. La ripresa fu fatta di sofferenze. Il finale ai napoletani parve interminabile: sembrò che le lancette degli orologi si fossero improvvisamente fermate. Uno spettatore osservò: «Son tutti cronometri juventini».

La prevalenza napoletana nel primo tempo si espresse attraverso il rendimento di due uomini fondamentali: Juliano ed Emoli, un ragazzo ed un veterano. Emoli offrì al centrocampo partenopeo il contributo di un gioco forte, ricco di grinta; Juliano lo dominò con classe genuina. Dal quadro della convulsa partita, prima ancora che compagni ed avversari più esperti si liberassero dal nervosismo, Juliano si stagliò presto con sbalorditiva nitidezza di contorni. Parve di vedere, per lunghi tratti, il miglior Bulgarelli. E neanche i suoi difetti più abituali si avvertirono: non trattenne troppo la palla, sbagliò raramente un passaggio. 

La Juventus non contrastò il prevalere del Napoli a centro campo. Ritenne opportuno, per chissà qual misterioso disegno, aspettare l’offensiva partenopea quasi ai limiti dell’area di rigore arretrando Cinesinho addirittura sulla linea dei terzini. La conseguenza fu che Sivori – ben sorretto alle spalle da Juliano, da Emoli ed anche dagli arretramenti di Bean – anziché far l’uomo di regia a centro campo potè spingersi più avanti, ed affiancare più frequentemente del solito Altafini. Sicchè il brasiliano, che proprio di compagnia ha bisogno, e di compagnia di buona qualità – cioè di gente capace di passargli il pallone rapidamente, prima che gli avversari gli piombino addosso – si scatenò e orchestrò con Sivori scambi travolgenti e fantasiosi.

Anzolin ebbe lavoro: gliene procurò Sivori, un tiro lo effettuò Juliano, un’altra fu Sivori ad incunearsi pericolosamente. Il Napoli aggredì l’avversario, senza mai lasciar la presa. E lo superò implacabilmente nell’anticipo. Neanche dopo il gol, il Napoli desistette. Avrebbe potuto segnare ancora. Come qualità di gioco l’Avrebbe abbondantemente meritato. Il raddoppio venne impedito da una prodezza di Anzolin, che deviò un tiro violentissimo di Bean lanciato ancora da Sivori. 

Il Napoli era scatenato all’attacco, e la Juventus appariva ormai frastornata, allorquando – per una «finta» di un avversario – Bean si girò male e piombò a terra, vittima di una distorsione. Lo portarono a braccia fuori del campo. Tentò di rientrare, dovette tornare fuori. Solo nella ripresa riapparve con il ginocchio stretto in una fasciatura, penosamente saltellante su ogni pallone che finiva nella sua zona. Neanche l’infortunio di Bean fu sufficiente, però, a frenare il Napoli, per un po’ di tempo. Juliano ed Emoli continuarono a rifornire, Altafini continuò a lottare, Canè (sul quale Heriberto, dopo l3incidente di Bean, spostò Salvadori per consentire a Gori qualche puntata offensiva) divenne man mano più insidioso. Sino alla fine del primo tempo, quasi mai la Juventus riuscì ad arrivare nell’area di Bandoni. Il portiere azzurro tornò negli spogliatoi, alla fine del primo tempo, dopo aver toccato un solo pallone, su tiro di Del Sol.

La condanna della Juventus sta nella trama del racconto della partita. Cambiano gli uomini, i ruoli, le caratteristiche degli attaccanti juventini, ma non cambia lo squallido risultato del loro gioco.

Nella ripresa il Napoli, poco a poco, si contrasse. Subentrò anche la sensazione che, chiudendosi, si potesse difendere meglio il vantaggio: si pagarono anche le conseguenze dell’assenza di Bean che assicura un oscuro ma prezioso apporto al lavoro di centrocampo. Sicchè si creò un vuoto tra i due soli uomini di punta – Altafini e Canè – e tutto il resto della squadra retrocesso a far la guardia alla vittoria. In quello spazio si inserì la Juventus e organizzò una lunga pressione raramente rotta da tentativi di contropiede del Napoli, impostati in genere con felici spunti da Juliano, ai quali Altafini – toccato anche duramente in uno scontro – offrì un contributo sempre più ridotto. La pressione juventina non sfociò in azioni pericolose. La resistenza partenopea fu rabbiosa. Ogni attaccante bianconero venne inesorabilmente controllato. Heriberto, dopo aver mandato avanti Leoncini, spinse all’assalto anche Bercellino per sfruttarne la mole sui palloni alti. Panzanato fece miracoli per contenderglieli. E Bandoni intervenne intelligentemente talvolta in presa, spesso con violente respinte di pugno allontanando ogni insidia. L’arbitro perdonò al Napoli – e se fu un errore, fu l’unico – un atterramento di Leoncini, ma fu Bandoni a salvare la vittoria a tre minuti dalla fine, uscendo tempestivamente sui piedi di Menichelli (due minuti prima Anzolin aveva impedito il raddoppio tuffandosi su uno splendido colpo di testa di Canè).

Pressato il Napoli non perse mai la testa, nonostante qualche incertezza di Ronzon e il rendimento non sempre disinvolto di Nardin. Quando il pallone veniva a trovarsi in area, se ne liberava fulmineamente; quando veniva a trovarsi a centrocampo, Sivori e altri suoi compagni se lo scambiavano, o lo trattenevano, per perdere tempo. Il convulso andamento della partita e l’infortunio a Bean non permisero al Napoli di conservare a lungo il bel gioco collettivo messo in mostra nel primo tempo, ma gli consentirono di dimostrare un costante intelligente adattamento alle circostanze della partita. È una virtù che scaturisce, in genere, dall’esperienza. E il Napoli è una squadra che l’anno scorso militava in serie B. È possibile che l’inserimento di due fuoriclasse, Sivori e Altafini, sia stao sufficiente a determinare un miracolo di così vaste dimensioni?

Domenica a Fuorigrotta va il Bologna, fra tre giornate il Milan: indipendentemente dalle ambizioni di scudetto – che sono collegate soprattutto al comportamento dell’Inter – a fine febbraio sapremo con esattezza quali prospettive la primavera riserva al Napoli. Per chiarire i limiti della Juventus è stato sufficiente l’inverno.
Gino Palumbo

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