Maielllo, “il Maradona delle Carceri”: «Stavo per rapire Zola, ma il suo sorriso mi fermò»

Alla Gazzetta: «Quel sorriso è stata una luce che si è accesa dentro di me. Ricordo ancora i suoi occhi, buoni, puri. Brillavano. Rappresentava il mio sogno nel pallone: era quello che io non ero riuscito a diventare»

Zola

Bergamo 09/12/2021 - Champions League / Atalanta-Villareal / foto Image Sport nella foto: Gianfranco Zola

La Gazzetta dello Sport ha intervistato Fabrizio Maiello, soprannominato “Il Maradona delle Carceri”: «Volevamo rapire Zola per poi chiedere il riscatto a Tanzi»

Da giovane era una promessa del calcio poi un infortunio gli ha spezzato i sogni e sono arrivate droghe e cattive compagnie. Quindi gli arresti, le sparatorie e tanto altro. Nel 2024, trent’anni dopo, Fabrizio e Gianfranco Zola si sono rivisti, abbracciati e Maiello ha avuto il perdono dell’ex numero dieci gialloblù.

Come andò?

«Era il 1994. Io ero rinchiuso nell’ospedale psichiatrico giudiziario di Montelupo Fiorentino. Non avevo nessuno, mia moglie stava morendo. Decido di fuggire e divento latitante: “vogliamo rapire Zola, così chiederemo un riscatto a Tanzi”, mi dicono. Accetto. Ci infiliamo in due auto, il piano era di seguirlo in autostrada per poi speronarlo una volta usciti. Ma lì succede un imprevisto…».

Ci racconti.

«Gianfranco si ferma al distributore. Addirittura esce e si trattiene a parlare con il benzinaio. Non avevamo tempo, eravamo quattro latitanti su due macchine rubate e con le pistole addosso. Allora scendiamo, facciamo finta di niente, ci guardiamo intorno. Lui ci nota, ci viene incontro: “Ciao ragazzi, avete bisogno di qualcosa?”. Quel sorriso è stata una luce che si è accesa dentro di me. Ricordo ancora i suoi occhi, buoni, puri. Brillavano. Rappresentava il mio sogno nel pallone: era quello che io non ero riuscito a diventare. Lì ho deciso di non fare nulla, anzi mi sono fatto firmare un autografo sulla carta d’identità».

E lui non si è accorto di niente?

«La moglie Franca sì, si è spaventata. Lui inizialmente no, poi quando ha visto il tatuaggio che ho sulla mano, con i cinque punti della malavita, è salito velocemente in macchina ed è partito».

Ha raccontato la sua storia nel Podcast ‘il Maradona delle Carceri’ e ora uscirà anche un libro.

In cella la chiamavano così?

«Sì, perché ero bravo. Il calcio mi aveva sedotto e abbandonato. Io volevo giocare, ero arrivato fino alla Primavera del Monza, ma dopo un infortunio fui costretto a smettere. Lo trovavo ingiusto, ce l’avevo col mondo. Così ho iniziato a frequentare cattive compagnie. Non avevo niente da perdere. Ero rispettato, perché in galera funziona così: se hai studiato non importa a nessuno, ma se sei bravo col pallone, allora vuol dire che hai la ‘cazzimma’ giusta per il mondo criminale. È stata la mia fortuna, ma anche la mia sfortuna. Da un lato mi chiamavano il ‘Maradona delle carceri’ e non mi toccavano. Dall’altro mi dicevano: ‘Basta rapine, vieni con noi’. E una volta uscito, ho fatto sempre peggio. Minacce, estorsioni, guerre fra clan». 

Correlate