Operai al nero al Camp Nou: “lavorano 12 ore al giorno sette giorni la settimana da oltre un anno”. Barcellona in imbarazzo
Cinquanta lavoratori in protesta oggi all'esterno dello stadio. Ma le società sportive sono oggettivamente responsabili delle condizioni di lavoro nello stadio ? (AS)

People shop for the new #10 jersey of Barcelona's Spanish forward Lamine Yamal at the official FCB store in Barcelona on July 17, 2025. Yamal, who just turned 18, signed a new contract until 2031 with the Catalan giants after a spectacular season. (Photo by Manaure QUINTERO / AFP)
Decine di lavoratori impegnati nei cantieri del Camp Nou a Barcellona hanno protestato oggi contro il loro licenziamento e la potenziale espulsione dal paese. “Lavorano dodici ore al giorno sette giorni la settimana da oltre un anno”. E’ la denuncia del sindacato Ccoo. Molti operai non hanno documenti regolari. L’azione è stata convocata proprio da Ccoo, che accusa le ditte Ekstreme Works e Limak di voler “rimandarli nel loro paese senza alcuna garanzia” nei confronti di 50 lavoratori in condizione amministrativa irregolare. “I lavoratori del Camp Nou si manifestano: non hanno documenti”, è stato il grido della protesta che ha attirato l’attenzione dei media spagnoli. Ne scrive As
La denuncia dei sindacati
Secondo le testimonianze raccolte sul posto, alcuni operai avrebbero prestato servizio “dodici ore al giorno, sette giorni a settimana” per un periodo che supera l’anno, senza che venissero regolarizzati i loro contratti né assicurati i diritti previdenziali e sociali. Il sindacato richiede che vengano attivate le procedure previste dal regolamento sull’immigrazione che permettono la “regolarizzazione straordinaria per collaborazione con le autorità del lavoro”. Inoltre, Ccoo afferma che il Fc Barcelona avrebbe fatto “orecchie da mercante” nei confronti delle richieste dei lavoratori, malgrado le sollecitazioni dell’ispettorato del lavoro. Un portavoce del sindacato ha avvertito anche che se i lavoratori — una volta espulsi — dovessero “mettere piede in territorio turco”, la loro capacità di difesa legale ne risentirebbe ulteriormente.
I lavoratori del Nou Camp a Barcellona denza documenti
La questione dei lavoratori “senza documenti” nei grandi impianti sportivi, come quello del Barcellona non è nuova né circoscritta alla Spagna. Ogni infrastruttura di rilievo, in fase di costruzione o manutenzione, spesso coinvolge ditte esterne che ricorrono a manodopera immigrata e marginalizzata. Il caso del Camp Nou mostra come, anche nel mondo del calcio, i diritti del lavoro possano finire sacrificati in nome dell’urgenza di completare opere o mantenere attività programmate.
Il Barça, come club con responsabilità sociali e mediatiche molto forti, si trova oggi al centro di una tempesta che non riguarda il campo, ma l’etica organizzativa. Il silenzio — o meglio, la “sordità” evocata dal sindacato — fa nascere domande: fino a che punto i grandi club e le autorità sportive sono disposti a tollerare situazioni irregolari pur di portare avanti progetti infrastrutturali?
Analoghe proteste si sono viste altrove (settori edilizi, grandi eventi sportivi, concerti) e sempre con lo stesso schema: lavoratori precari, documenti irregolari, richieste di regolarizzazione respinte o ignorate. In un contesto europeo in cui l’immigrazione è un tema centrale, queste tensioni rischiano di esplodere anche in altri stadi, altri Paesi, altre società.
Per il calcio, un avversario invisibile: il tempo. Ogni opera arretrata, ogni ritardo nei controlli può trasformarsi in scandalo mediatico, in potenziale multa dagli organismi federali, persino in danno reputazionale per tifosi e sponsor. E per i lavoratori — quelli che non hanno voce — la battaglia diventa doppia: pagare un prezzo non solo sul salario, ma sulla dignità.
Se il calcio è cultura e comunità, la manutenzione dello stadio non può essere un’area senza tutele. Il Camp Nou oggi è teatro di una vertenza che va oltre la bandiera blaugrana. È un banco di prova per tutti i club europei: chi costruisce, chi migliora, chi innova, deve sapere che fare impresa non può significare ignorare diritti fondamentali.











