Kobe, il suo primo allenatore: «Al suo primo torneo non passava la palla, decisi di chiamarlo fuori. Scappò a piangere dai genitori»
Gioacchino Fusacchia, alla Gazzetta: «Sfidava tutti, dappertutto: a casa, in strada. Viveva con il pallone. Attaccava il canestro anche quando si allenava la prima squadra di suo padre Joe»

Inaugurazione del Parco di via dell'Erba dedicato a Kobe Bryant (ph Carlo HermannKontrolab)
A Rieti, negli anni Ottanta, è passato anche il destino di Kobe Bryant. Joe Bryant, conclusa l’esperienza Nba, ha inaugurato il suo percorso nel nostro campionato portando con sé il figlio destinato a diventare leggenda. A raccontare di lui alla Gazzetta dello Sport, il suo primo allenatore Gioacchino Fusacchia, all’epoca 25enne.
«Era irrequieto, entrava in campo palleggiando pure quando giocavano i più grandi. Non ne voleva sapere di uscire. Sfidava tutti, dappertutto: a casa, in strada. Viveva con il pallone. Attaccava il canestro anche quando si allenava la prima squadra di suo padre Joe».
Da Kobe a Furlani:
Dallo stesso parquet sono passati due destini diversi ma accomunati da Fusacchia, che ha visto nascere la passione del neo campione Mattia Furlani per la pallacanestro e che, anni prima, aveva incrociato un giovanissimo Kobe: «Al suo primo torneo non passava mai la palla, decisi di chiamarlo fuori. Kobe scappò a piangere dai genitori in tribuna. Alla fine lo rimandai in campo e conquistò il titolo di miglior giocatore del torneo».
Fusacchia, in una vecchia intervista aa Repubblica aveva ricordato l’arrivo di Joe e del piccolo Kobe: «Era il 1984 e Joe, a furor di popolo, fu ingaggiato dalla Sebastiani, la nostra società. Portò qui tutta la sua famiglia. E durante il suo primo giorno a Rieti, ecco che venne da noi con questo bimbo di 6 anni, che stava sempre dietro il papà, nascosto, molto timido».
Ricorda la sua prima partita?
«Come fosse ieri. Lo aggregammo per un torneo alla squadra dei classe ’75, ma non immaginavamo che un bimbetto così avrebbe potuto spostare gli equilibri delle partite. Non passava mai la palla, faceva tutto da solo, e decidemmo allora di metterlo fuori, perché concepivamo il minibasket come uno sport di squadra. Allora scappò dal papà e dalla mamma in tribuna e pianse. Alla fine lo richiamammo e lo premiammo come miglior giocatore del torneo. Fu una piccola lezione, che sicuramente lo rese più forte».