Shevchenko: «Chernobyl sciolse il mio pallone, mia madre lo bruciò. Avevo 9 anni»

Al Corsera parla della guerra ma non solo: «Lobanowski faceva la formazione portandosi su una salita al 16% e ci faceva correre. Chi vomitava prima, non giocava»

Genoa Shevchenko

Genova 01/12/2021 - campionato di calcio serie A / Genoa-Milan / foto Image Sport nella foto: Andriy Shevchenko

Shevchenko sul Corriere della Sera intervistato da Aldo Cazzullo.

Perché i suoi non hanno lasciato l’Ucraina?

«Perché è la loro patria, la loro terra, la loro casa. Semmai avrei preferito raggiungerli io. Perché avrebbero dovuto andarsene?».

Perché stava per scoppiare un conflitto.

«Non è un conflitto, non è un’operazione speciale, come la vogliono vendere. È un’aggressione. Un crimine contro i civili. Nessuno ci ha voluto credere, sino all’ultimo. Non potevamo immaginare che la Russia ci avrebbe fatto questo. Ci pareva impossibile».

Lei aveva 9 anni quando esplose il reattore numero 4 della centrale nucleare di Chernobyl.

«Portai a casa il mio pallone tutto accartocciato, quasi sciolto: era radioattivo, mia madre lo bruciò nella bacinella. Arrivarono pullman da tutta l’Urss per portare via i bambini. Io finii sul Mare d’Azov, a 1.500 chilometri da casa. In un campo estivo dove dormivamo in 7 per stanza».

Nel bel libro scritto con Alessandro Alciato, «Forza gentile», lei racconta che degli amici della sua giovinezza soltanto uno è ancora vivo.

«Purtroppo è così. Gli altri li hanno uccisi il crimine, la droga, l’alcol. Sono stati anni terribili, quelli della dissoluzione dell’Unione Sovietica. Tanti cercavano scorciatoie che non li hanno portati da nessuna parte. Una volta anch’io fui coinvolto in una rissa, tornai a casa tutto pesto. Da allora ho orrore della violenza».

E il mitico Lobanovskij, detto il Colonnello, che fu suo allenatore alla Dinamo Kyiv.

«Era stato nell’Armata Rossa. Ma noi lo chiamavamo con il patronimico, in segno di rispetto: Valerij Vasil’evic. Impostò un programma militare: sveglia alle 6 e 45, alle 7 corsa all’aperto anche con dieci gradi sottozero, poi palestra con varie stazioni di lavoro, tipo Via Crucis. Alle 10 colazione, quindi primo allenamento di calcio, doccia, riposino fino alle 16, poi altre due ore di allenamento. Fu il primo a studiare le partite al computer, ma considerava il dribbling fondamentale, organizzava di continuo duelli uno contro uno. La formazione era decisa dalla salita della morte».

Cos’era?

«Un tracciato con il 16% di pendenza: correvamo su e giù fino a quando qualcuno non cominciava a vomitare. Giocava chi non aveva vomitato, o comunque vomitato di meno».

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