Wenger: «La sconfitta mi ha sempre provocato dolore, anche fisico. È un fatto sensoriale»
A Repubblica: «La vita privata dei calciatori è sacra. Una volta ne sorpresi uno a fumare, fuori, di sera. Gli dissi che con un buon drink, una sigaretta è l’ideale»
A Repubblica: «La vita privata dei calciatori è sacra. Una volta ne sorpresi uno a fumare, fuori, di sera. Gli dissi che con un buon drink, una sigaretta è l’ideale»
Repubblica intervista Arsène Wenger, responsabile Fifa per lo sviluppo del calcio nel mondo. Ex allenatore dell’Arsenal. Ha ricoperto quel ruolo per 22 anni, dal 1996 al 2018. Dal giorno del suo addio, racconta, non ha messo più piede all’Emirates Stadium.
«Mi sono svegliato come sempre alle 5 e 30, ho fatto i miei esercizi, mi sono vestito per andare al centro di allenamento. Ma non dovevo andare da nessuna parte. La storia era finita. Allora non potevo sapere quanto mi avrebbe fatto male nei mesi successivi. Oggi sono sereno. Ho scoperto la famiglia, gli affetti, il tempo, le città. Tornerò allo stadio a vedere l’Arsenal, ma non sono pronto. È la mia squadra, la mia storia».
Oggi racconta questa storia in un’autobiografia dal titolo “La mia vita in bianco e rosso”, pubblicata in
Italia da Baldini+Castoldi. A partire dai primi ricordi. Ne ha pochissimi prima del calcio, dice.
«Da bambino, nell’Alsazia del dopoguerra, in tutti i miei pensieri c’era un pallone. Anche quando caricavo sacchi di carbone in spalla, per aiutare mio zio mercante a consegnarli casa per casa. O nei pomeriggi al bistrot dei miei, palestra per capire gli uomini. Era un mondo agricolo, di duro lavoro. Avere un cavallo era una grande ricchezza».
Il calcio, per lui, è sempre stato una questione di vita o di morte.
«È stato così fin da quando giocavo nei campionati distrettuali della Francia orientale. La sconfitta mi ha sempre provocato dolore, anche fisico. È un fatto sensoriale. Quando vinci, una parete spoglia è un bel paesaggio. Se perdi diventa insopportabile anche la vista del mare».
Parla della grande rivalità con Alex Ferguson, tecnico del Manchester United.
«Quando si giocava contro lo United era anche una sfida fra me e lui, certo».
Con Ferguson non ci sono mai stati contatti amichevoli fuori dal campo. Mai bevuto una birra insieme, ad esempio.
«Non è capitato. Quando allenavamo era impensabile. Dopo il ritiro lui è rimasto a Manchester, fuori dalle mie traiettorie. Lo stimo e lo rispetto, ma non siamo rimasti in contatto. Quello che dovevamo dirci ce lo siamo detti in campo».
22 anni in panchina, spiega perché.
«Io ho sempre avuto bisogno di tempo. Sono stato l’allenatore in carica più a lungo al Monaco. Amo le cose che durano, che crescono dalle radici. Mi rivedo in Klopp, che a Liverpool potrebbe fare un lungo ciclo. Forse non di 22 anni, è troppo anziano. E dovrà trovare da parte del club sostegno e pazienza».
Di Wenger si è sempre detto che controllava tutto dei suoi calciatori, compresa la dieta e il sonno. Lui però difende la sacralità della vita privata e il fatto di non aver mai puntato il dito su quella.
«Girava la leggenda che costringessi i calciatori a mangiare broccoli a colazione, pranzo e cena. Ma la vita privata è sacra. Un giocatore fu sorpreso a fumare, fuori la sera. Si aspettava una reprimenda. Gli dissi che con un buon drink, una sigaretta è l’ ideale. Finì lì. D’altra parte, la mia avventura all’Arsenal cominciò con una sigaretta fumata allo stadio, nel momento giusto e con la persona giusta».
Ricordando il passato, Wenger parla anche della Serie A. E’ diversa da prima, quando «era un ottimo campionato». Spiega:
«Si sta rialzando, ma è meno ricca. E il calcio di oggi è un fatto di dominazione economica».
Nel libro cita solo due italiani: Buffon e Ancelotti. Del calcio italiano dice:
«Mi piace e lo rispetto. Sacchi e Capello hanno reso il gioco in Italia più offensivo, europeo. Lo si vede anche da come gioca oggi la Nazionale. In tutti i maggiori campionati si fa un gioco simile. Il modello è la Premier League».
Sul Financial fair play:
«Va rivisto. I club che dominano in Europa lo fanno grazie a quello che hanno speso prima dei vincoli. Si sono congelate le posizioni acquisite, questo falsa la competizione. Oggi è facile indovinare chi vincerà, mentre il bello del calcio dovrebbe essere l’imprevedibilità. E per i nuovi investitori è complicato fare profitti. Bisogna aprire le porte, pur con controlli stretti».
Sugli ingaggi dei giocatori:
«Guadagnano il giusto, se le società possono permetterselo».
Ma tra le priorità dei governi non dovrebbero esserci gli aiuti ai club.
«Gli Stati devono avere altre priorità. Ha senso concedere ai club il rinvio delle scadenze fiscali, non soldi e favori. Quello dei grandi campionati è un mondo di privilegiati, anche se va di moda dire il contrario».
Parla dei suoi obiettivi di adesso:
«Dare una chance a ogni bambina e bambino di giocare a calcio. Abbattere la differenza fra Europa e resto del mondo. Dare credibilità al sistema. Creare le condizioni perché gli atleti possano dare il meglio. E credo nella funzione pedagogica del calcio. Ci lavoro con Pierluigi Collina, un maestro».