De Laurentiis arrivò a Paestum in Maserati: «Caro Ventura, adesso dobbiamo solo vincere»

Nessuno potrà dimenticare l’estate del 2004 quando la fonte delle nostre passioni domenicali, e degli altri giorni della settimana, il Napoli, divenne un fantasma, un storia che sfumava nei tribunali e una squadra che non c’era più. Mentre eravamo al cimitero delle promesse e delle speranze, alle 9 del mattino del 24 agosto, un martedì, […]

Nessuno potrà dimenticare l’estate del 2004 quando la fonte delle nostre passioni domenicali, e degli altri giorni della settimana, il Napoli, divenne un fantasma, un storia che sfumava nei tribunali e una squadra che non c’era più.

Mentre eravamo al cimitero delle promesse e delle speranze, alle 9 del mattino del 24 agosto, un martedì, si materializzò su un cavallo bianco, giungendo da Los Angeles e acquartierandosi all’Hotel Quisisana di Capri, il produttore cinematografico Aurelio De Laurentiis. Che lo inviasse il Cielo o qualche potente della Terra non ebbe importanza dal momento che lui inviò due messaggeri, gli avvocati Giuseppe e Francesco Cipriani Marinelli, dal giudice Paolo Celentano del Tribunale di Napoli offrendo sull’unghia 25 milioni di euro per avere il Napoli in serie C e 47 milioni nella superiore ipotesi di schierarlo in serie B, ipotesi cancellata seduta stante dal califfo federale Franco Carraro.

Stordita dall’offerta hollywoodiana, la Fallimentare, presso cui giaceva il corpo inanimato del Napoli, boccheggiò e tergiversò, ma il 6 settembre, un lunedì, a una settimana dall’inizio del campionato, consegnò il Napoli al nuovo imperatore dei cuori azzurri Marco Aurelio De Laurentiis per una sessantina di miliardi di lire. Su di un pulmino turistico, con dieci legali a bordo, il produttore cinematografico, con capello e barba da conquistatore, e occhiali da sole, giunse di buon mattino a Castelcapuano, dove il Napoli giocava ormai stabilmente dal mese di giugno la partita della sua vita, e ne uscì alle 18,40 con l’incoronazione di presidente del Napoli Soccer.

Nonni avellinesi di Torella dei Lombardi, padre di Torre Annunziata, Luigi, che era fratello del produttore Dino De Laurentiis, l’uomo nuovo del Napoli nato a Torre Annunziata il 24 maggio 1949, con casa a Roma ma più noto a Beverly Hills, presidente a vita del produttori internazionali di pellicole, raccontò il primo aneddoto. Si era appena operato di menisco a New York, un segno del destino che gli infranse la più famosa delle cartilagini calcistiche. Assunse Pier Paolo Marino come direttore generale della pazza impresa cui andò incontro, digiuno di fuorigioco, trequartisti, pressing e lupi mannari del mondo che invadeva, e tracciò un programma di cinque anni di lotta continua per portare il Napoli in serie A e in Europa centrando la serie A in quattro anni.

“Voglio rilanciare la città attraverso il calcio” disse. “Volevo il Napoli nel ’99, ma Ferlaino non accettò le mie proposte. Allora detti un valore enorme al Napoli: 120 miliardi di lire. Ora l’ho preso per 29 milioni di euro, ma ho acquistato solo un avviamento d’azienda e nessuno sa quanto essa potrà valere se sarà ben gestita e produrrà il massimo. Voglio arrivare in alto”. Divenne presidente e tifoso, imprenditore di calcio e sceriffo. Andando allo stadio, conobbe un’emozione infinita. “Dopo la partita mi sento svuotato, stravolto annullato”.

Arrivò sulla sua sportivissima Maserati a Paestum, il primo accampamento del Napoli risorto, e dopo le prime partite ordinò: “Caro Ventura, adesso dobbiamo solo vincere”. A dicembre fece il punto della situazione: “A settembre eravamo tutti storditi, increduli, e abbiamo messo in piedi una squadra che potesse andare in campo con la maglia del Napoli. Ma non abbiamo avuto il tempo di conferirle carattere e tecnica. Arriveranno dei rinforzi. Il calcio è un mondo nuovo per me. Sto osservando, devo capire di che pasta sono fatte le persone che conducono il gioco”.

Allontanandosi fino alle Isole Vergini per i suoi impegni cinematografici, era in continuo contatto e, per telefono, si faceva fare in diretta dal direttore generale della Filmauro, Amati, le cronache delle partite cui non poteva assistere. Pensava a un campionato europeo con la moviola in campo e il Napoli fra le regine della festa.

“Una volta uscito dall’inferno della serie C e della serie B, il Napoli avrà tutti i titoli per essere inserito nel novero dei grandi club europei. Come la città che ha tutto per competere e in 15 anni potrà diventare una locomotiva”.

Protestando la sua ignoranza in materia di football, dopo poche settimane parlò con la sicurezza di Agroppi e col genio di Sacchi. “Voglio vedere undici, anzi diciotto leoni. La squadra va meglio nel secondo tempo perché ha una tenuta fisica superiore a quella degli avversari”. Dopo le partite, centrava con eloquio forbito i temi tattici della gara. Pare che portasse nella tasca della giacca un corno d’argento. Tattico e scaramantico.

Senza disunirsi nell’inciampo dei playoff che, al primo anno, negarono al Napoli la promozione in serie B, il produttore di un nuovo sogno chiamato Napoli Soccer proseguì con Marino nel progetto di una grande squadra e di una grande società.

Nei primi due anni, conclusi con la conquista della serie B, impegnò 50 milioni di euro fra l’acquisto del titolo sportivo dalla Fallimentare, l’assunzione di due allenatori, l’ingaggio di 45 giocatori e il versamento di 250mila euro di multe al ragioniere Macalli, presidente della Lega di serie C, per gli storici striscioni contro Carraro, il nostro miglior nemico.

Confermò Reja che, choccato dalla mancata promozione al primo anno, voleva farsi da parte: “E’ stato la nostra guida sicura, un uomo che è andato avanti a testa bassa, con umiltà, pervaso da una classe che non riscontro in questo ambiente. Un signore, mai un lamento, mai un giocatore che non gli andava bene o un medico da contestare. Reja è il mio Clint Eastwood, un cow boy col cuore tenero. Il progetto va avanti. E Marino è il mio Maradona. La pensa come me. È un cesellatore”. Aggiunse: “A posteriori posso dire che il mio errore fu quello di non avere mandato via Ventura tre settimane prima”.

Completamente conquistato: “Il mondo del calcio, per giunta vissuto a Napoli, mi ha preso totalmente. Qui è come fare un film ogni settimana, e deve avere successo. Sono entrato in un sogno e sono proprietario di un club che rappresenta una città unica al mondo”. Reagì al pamphlet di Giorgio Bocca che sfiorò le vicende calcistiche: “Il Napoli è tutto mio, solo mio e l’ho pagato con due assegni dell’Unicredit, non con quelli della Banca di Roma. Né Geronzi, né Murdoch sono i miei soci occulti. Temo che Bocca stia invecchiando”.

Sempre più preciso nei giudizi sulle partite e sugli interpreti. Una volta disse: “Ho notato il grande carattere dei giocatori. Dopo un primo tempo un po’ farlocco, anche perché se non giochiamo palla a terra diventa un casino, nel secondo non ce n’è stato per nessuno. Il peggior nemico del Napoli è il Napoli stesso”.

Ebbe domeniche di delusione e nervosismo, e parlò sempre chiaro. Dopo la mediocre vittoria sul Martina al “San Paolo”, 12 marzo 2006, davanti alle telecamere indirizzò un memorabile cicchetto: “Non vado negli spogliatoi, altrimenti divoro tutti, gli stacco la testa. Non si può vincere per 1-0 e per giunta con un autogol. Siamo primi solo per i demeriti degli altri. La mentalità dei giocatori non si sposa con il mio carattere. Non comprendo le decisioni di Reja. Me ne vado deluso. Savini non lo avrei fatto giocare, non stava bene e si è infortunato di nuovo. Molte decisioni vengono prese con leggerezza. Accadeva già con Ventura. Non capisco perché Reja non abbia fatto giocare Briotti che a Manfredonia s’era comportato bene. Non accetto fregnacce da un uomo di sessant’anni”. La pesante stoccata all’allenatore fu subito ricomposta.

Per impegni a Los Angeles mancò la partita col Perugia che fissò in anticipo la promozione del Napoli in serie B. Disse: “Non volevo rubare la scena ai protagonisti veri”. Ma all’ultima partita casalinga, contro il Frosinone, non ebbe neanche un coro, uno striscione, un gesto di affetto e di gratitudine dai tifosi che un giorno lo avevano chiamato “papà Aurelio”. Non si aspettava d’essere portato in trionfo, ma un grazie l’aveva messo in conto. Salutò rapidamente la squadra negli spogliatoi e si allontanò deluso dallo stadio.

Senza tenere il muso, progettò con Marino la squadra della serie B e spese altri otto milioni di euro per gli acquisti di Bucchi, De Zerbi, Paolo Cannavaro e Domizzi. Fu premiato con la promozione in serie A e il sogno azzurro di Aurelio De Laurentiis divenne finalmente un grande sogno.

Mimmo Carratelli (tratto da La grande storia del Napoli)

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