Ventura: «Col Var, Maradona avrebbe segnato quattro gol a partita. Nazionale? Avrei dovuto riflettere prima di accettare»

Al CorSport: «Dopo soltanto venti giorni capii che non c’erano i presupposti per fare calcio, non c'era una federazione forte alle spalle. Il calcio di oggi mi annoia».

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Db Torino 06/10/2017 - qualificazione Mondiali Russia 2018 / Italia-Macedonia / foto Daniele Buffa/Image Sport nella foto: Giampiero Ventura

Ivan Zazzaroni ha intervistato sul Corriere dello Sport Gian Piero Ventura, ex allenatore ed ex ct della Nazionale italiana.

L’intervista a Ventura

Tra pochi giorni, il 12, saranno trascorsi quattro anni dalla tua decisione di ritirarti. Ultimo domicilio conosciuto, Salerno:

«Sono rifiorito. Ho chiuso per tre ragioni. Primo, a Salerno ho capito che la direzione presa dal calcio non era la mia. Poi l’aspetto anagrafico, dopo quarantacinque anni con momenti bellissimi e altri meno piacevoli. E terzo, volevo godermi mia moglie, non diventare uno di quei mariti che si addormentano davanti alla tv. Sono un tipo iperattivo, mi alleno tutti i giorni, vado a correre, palestra, bici, golf».

Sei stato l’ultimo allenatore del Toro a vincere il derby:

«Me lo ricordano costantemente i tifosi e io ripeto loro che con il Var ne avremmo vinti molti di più. Subimmo un sacco di angherie, a detta di tutti. Senza scendere in particolari, rigori non dati, espulsioni non comminate, gol buoni non assegnati. Ti posso assicurare che sarebbero stati più di uno».

Precisamente, cosa non ti piace del calcio attuale?

«Mi annoia. Non emoziona più. Ho allenato quando c’erano Ronaldinho, Zidane e Kakà, quando il dribbling, il tunnel, la giocata di qualità erano all’ordine del giorno. Oggi è un calcio quasi comico. Salti di testa con le braccia dietro la schiena, se cadi per terra e il pallone colpisce un braccio ti fischiano contro il rigore una volta sì e l’altra pure. Dopo uno scontro ordinario uno si accascia e un semplice tocco viene trasformato in un taglio di scimitarra. Il calcio è uno sport di contatto, ma a qualcuno non sta più bene… Col Var Maradona avrebbe segnato quattro gol a partita, mentre molti difensori di allora oggi giocherebbero al massimo quattro gare a stagione. Alcune regole sono demenziali. Io guardo il Psg, il Barcellona, inseguo ancora l’emozione».

Come allenatore rientri nella categoria degli innovatori:

«Il portiere che gioca con i piedi lo introdussi io a Bari. Gillet aveva piedi d’oro. I miei due centrali erano Ranocchia e Bonucci, diciannove e vent’anni. Ci presentammo a San Siro contro l’Inter del triplete e facemmo 1 a 1, ma nei venti minuti finali sprecammo tre palle gol».

Io non ho dimenticato la Nazionale di Ventura, purtroppo, e non sono il solo. Anche in quel caso apristi una strada, quella dei fallimenti azzurri:

«Sbagliai. Avrei dovuto pensarci tre volte prima di accettare. Per la Nazionale lasciai un contratto di tre anni con una squadra che tutti gli anni gioca in Europa. Dopo soltanto venti giorni capii che non c’erano i presupposti per fare calcio».

Cos’era successo?

«Dopo appena 48 ore, amichevole con la Francia. Perdiamo 3-1. Passano tre giorni e dobbiamo giocare in Israele, sui giornali escono titoli di questo tenore: “Se Ventura non vince lo cacciano”. Vinciamo. In Macedonia andiamo sotto 2-1, riusciamo a ribaltare il risultato e in conferenza stampa la prima domanda che mi fanno è: “Quando stavamo perdendo ha pensato di essere già a casa?”. Dal mio insediamento erano passati solo dieci giorni… Ora i playoff sono considerati un traguardo, all’epoca erano un fallimento. Avrei dovuto mollare prima, ma era troppo forte il legame con l’Italia, con l’azzurro, quella maglia è troppo importante».

C’è altro?

«Mi chiedono se avrei convocato Berardi che in quel momento è infortunato. Rispondo che nel 3-5-2 non c’è il suo ruolo ma che una volta passati a quattro l’avrei certamente chiamato. Il giorno dopo, titolone: “Ventura boccia Berardi”. Ho subìto un sacco di scorrettezze».

Quanta sofferenza ti procurò quel fallimento?

«Prevalse la rabbia. Visti i risultati di chi è arrivato dopo di me potrei dire che anticipai la crisi del nostro calcio. Ma nessuno è riuscito a rovinare i miei quarantacinque anni di carriera. Quando giro per strada, per esempio qui a Torino dove sono per vedere il derby, la metà delle persone mi chiede del Toro, l’altra metà mi dice che con me furono vergognosi. Non avevo una federazione forte alle spalle. Con quella attuale sarebbe stato diverso. Ti ricordo che dopo la partita con la Svezia mi ritrovai da solo davanti al plotone d’esecuzione. Se l’erano data a gambe».

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