Le Olimpiadi di Barcellona un miraggio: l’inizio della disillusione spagnola
Enrique Llamas con Lo Nuestro racconta una Spagna che a Barcellona chiude con il franchismo e la storia passata, ma si accorge di non avere più sogni.

A volunteer speaks on the phone under the Olympics rings at North Paris Arena, the venue for Boxing for the Paris 2024 Olympic Games, in Villepinte, north of Paris, on July 24, 2024. (Photo by Mohd RASFAN / AFP)
Una visione diversa della Spagna, ed un momento di cesura, le Olimpiadi di Barcellona ’92. Per molti un tuffo nel futuro, per Enrique Llamas, la fine del passato. E’ su queste basi che l’autore scrive Lo nuestro (AdN), che El Pais recensisce parlando del suo significato e l’autore spiega in una intervista a Elasombario.
Le Olimpiadi di Barcellona
È stato un momento davvero emozionante – la recensione di El Pais – E, grazie alla videoteca, lo è ancora. Il 25 luglio 1992 si impresse nella memoria sentimentale di un intero Paese. Quella sera, quando l’altoparlante dello stadio olimpico di Barcellona annunciò l’ingresso della squadra spagnola, l’intensità salì di colpo. L’allora principe Felipe sfilava come alfiere: sul suo volto si leggevano l’illusione, la gioia e l’orgoglio di tutti i suoi connazionali. Juan Carlos e Sofía si alzarono in piedi per applaudire, in un applauso che rappresentava quello dell’intera società. L’infanta Elena piangeva di commozione, con lacrime che erano le stesse di tutto un popolo. Stavano per cominciare i Giochi Olimpici di Barcellona e la Spagna lanciava al mondo un messaggio di modernità, idee, talento, professionalità e unità. In un anno in cui Siviglia ospitava l’Esposizione Universale, il Paese raggiungeva una vetta impensabile solo qualche decennio prima. Il problema è che quella notte del 25 luglio 1992 e quei Giochi non rappresentarono, come poteva sembrare, un punto di partenza, bensì la fine di una fase. Dopo l’apice dell’orgoglio nazionale, iniziò la discesa. Quell’istante — come tutti gli istanti — si dissolse.
La disillusione di una Spagna alla fine di un’era
El Pais scrive: La disillusione di quell’epoca e la fragilità di tutto ciò che si ritiene solido sono i due pilastri su cui il giornalista Enrique Llamas costruisce Lo nuestro (AdN). Il romanzo, ambientato nella Barcellona olimpica e nella Madrid di quegli anni, ha come protagonisti alcuni giovani che, senza saperlo, sono legati dalla figura della tennista Arantxa Sánchez Vicario. La piccola Clara, quattordicenne, scapperà di casa per tentare di vedere dal vivo la sua idola. Jaime e Polo, poco più che trentenni e già impegnati come giornalisti in quell’estate barcellonese. Tutti scopriranno che, a volte, non c’è nulla di peggio che realizzare i propri sogni troppo presto. La cattiveria esiste. Le certezze del mattino possono diventare dubbi al pomeriggio. Come diceva Gil de Biedma, il fatto che la vita sia una cosa seria lo si inizia a capire solo più tardi, perché tutti i giovani vogliono divorarla subito.
Paese idilliaco? No: un Paese che entrava nella disillusione
Spiega Llamas a Elasombario: Credo che anche il passato recente, che non viene insegnato a scuola, contribuisca a definirci, perché la Spagna tardo-franchista è vicina, perché gli anni Ottanta hanno cambiato Madrid per sempre e gli anni Novanta hanno cambiato Barcellona. Non solo, ma l’immagine che la Spagna presentava nel 1992 era quella di un Paese idilliaco, con una transizione che all’epoca sembrava esemplare e che aveva raggiunto la modernità a passi da gigante; poi è diventato chiaro che non era così, ed è subentrata la disillusione, la perdita di un sogno. Quelli della mia generazione, fin dall’adolescenza o dalla prima età adulta, hanno vissuto una storia di perpetua disillusione. Nel 1992, invidiavo anche coloro che vivevano il presente pensando che tutto fosse già stato fatto, anche a livello internazionale; pensavano addirittura, come diceva Fukuyama, alla fine della storia, che il mondo fosse già chiuso, un senso di pace e di equilibrio che quelli della mia generazione hanno appena sperimentato.
Arancha Sánchez Vicario simbolo della Barcellona
A livello sportivo, non è un miraggio, ma lo è tutto il simbolismo che si è sviluppato attorno a lei. Quando ho iniziato a scrivere il romanzo, mi sono reso conto che la sua figura era la stessa della Spagna: una giovane donna, laboriosa, che raggiunge il successo in brevissimo tempo, da cui ci si aspetta tutto… Era come un simbolo. Poi la sua carriera finisce, così giovane, e tutto il retroscena della sua vita che non conoscevamo inizia a venire alla luce: i problemi con la famiglia, con il fisco…
Nonostante tu abbia riconosciuto la tua incapacità di comprendere il presente, come vedi la Spagna oggi, 30 anni dopo “Lo Nuestro”?
Da un lato, abbiamo fatto enormi progressi sociali. Siamo all’avanguardia nei diritti sociali, soprattutto grazie al governo Zapatero – beh, anche ai progressi compiuti negli ultimi anni. Ma credo che questo abbia anche un effetto a catena. Siamo molto più vicini a una battuta d’arresto politica a causa dell’estrema destra, come stiamo vedendo in Castiglia e León, ad esempio, quando pensavamo che non si sarebbe più ripetuto. Perché credo che ci siano molte persone che, quando vedono altri acquisire diritti, credono di perderli, e non è così. In questo senso, dobbiamo essere molto cauti, perché gli ultimi mesi ci hanno dimostrato che non è mai troppo tardi per tornare indietro, e che non sappiamo quanto sia possibile tornare indietro, ma sarà sicuramente molto lontano.