Cellino: «A Brescia c’è il maligno, il compleanno è il 17 luglio: se l’avessi saputo prima…»
A L'Unione Sarda: «Se una società, in 115 anni, ha fatto 10 anni di Serie A e 105 in altre categorie, non è colpa di Massimo Cellino. L'Italia permette ancora l’introito di certi fondi poco chiari»

Db Ospitaletto (Bs) 07/09/2019 - amichevole / Brescia-Frosinone / foto Daniele Buffa/Image Sport nella foto: Marco Cellino
Nello studio multimediale dell’Unione Sarda, Massimo Cellino è ospite del nuovo format “La voce sarda” e si racconta senza filtri: dal suo amore per il Cagliari e le sfide vissute a Leeds, fino ai difficili anni a Brescia. Di seguito, i momenti più interessanti dell’intervista.
Il calcio le manca dopo i fatti di Brescia?
«No. Non c’è più il calcio che conosciamo, per il quale siamo andati a vedere le nostre squadre negli stadi. Il sistema è scoppiato e chi gestisce la Federazione ha devastato il calcio. E chi li ostacola viene sopraffatto e distrutto».
Lei è stato presidente della Lega Calcio vent’anni fa. Cos’è cambiato?
«Tutto. Prima c’erano i presidenti, c’erano le proprietà che rappresentavano le società di calcio. Oggi ci sono dei dirigenti più o meno capaci. Ci sono rappresentanti di fondi, qualcuno di cui non si conosce la provenienza, perché l’Italia, a differenza dell’Inghilterra, permette ancora l’introito di certi fondi poco chiari».
Cellino sulla vita a Cagliari:
«Mi manca tutta quella vita. Il Cagliari, quello che ha rappresentato in quegli anni mi manca. Mi manca la mia giovinezza, gli anni più belli, più duri della mia vita, però solo bei ricordi».
A 35 anni acquistò il Cagliari per 16 miliardi dalla famiglia Orrù. Che cosa la spinse?
«L’incoscienza. L’incoscienza e poi il nostro concorrente numero uno in Italia, Franco Ambrosio, proprietario dell’Italgrani. Massimo, prenditi il Cagliari perché il Napoli ha già preso Fonseca e non hanno il coraggio di firmargli il contratto. Io non capivo nulla di calcio. Lo compriamo insieme il Cagliari. Così dai, sono 12 miliardi di lire. C****, tutti questi soldi. Io andai a Napoli dal presidente Ferlaino a chiudere l’operazione: 50,1% noi, 49% Franco Ambrosio con una sua società immobiliare. Poi dopo sei mesi rilevammo tutto».
È orgoglioso di aver lasciato un bel ricordo nei tifosi sardi?
«Io avrei voluto dargli molto di più, però noi sardi abbiamo un grosso difetto, non apprezziamo quello che abbiamo, andiamo sempre a vedere quello che hanno gli altri. Se io voglio ritornare in Sardegna dopo che ho passato una vita all’estero, è perché la Sardegna è il paese più bello del mondo e non servono i soldi per godersela. Questa è una ricchezza che pochi hanno».
Cosa la spinse, dopo 23 campionati, a vendere il Cagliari a Tommaso Giulini?
«Tommaso Giulini è stato l’unico, con un prezzo molto più basso di altri, concreto. Devo dire la verità. Mi ha conquistato con una bottiglia di whisky. Venne a Leeds a trovarmi e mi portò una bottiglia di Blue Label. Io sono un sentimentale e il whisky mi piace. Fu un incontro simpatico, perciò feci di tutto per dare a lui il Cagliari».
Aveva avuto altre offerte?
«C’erano altri compratori, con più soldi. Avevo già un’operazione avviata con il Qatar, con un referente che stava in Svizzera, che mi disse Noi compriamo il Cagliari, ma compriamo anche Massimo Cellino, vogliamo che tu rimanga a Cagliari. Compratemi il Cagliari, dissi, ma io non posso rimanere perché sono in una situazione molto imbarazzante con l’amministrazione comunale. Non sono una garanzia. No, no, tu rimani. Accettai. Ma ci fu una partita, Cagliari-Milan, vincevamo 1-0. Lopez fece un cambio del cavolo e il Milan pareggiò nel finale. Mi chiamarono e mi dissero butta via Lopez. Perché lo devo mandare via? No, no, tu devi farlo perché tu sei il nostro cameriere, mi disse questo qui, un algerino con la delega di un imprenditore del Qatar. Io non sono il cameriere di nessuno, io sono il cameriere del Cagliari, non cameriere vostro. Perciò, se volete il Cagliari, prendetelo, ma io non rimango con voi. Non se ne fece nulla».
I quattro campionati a Leeds:
«Sono arrivato in una società che perdeva 100.000 sterline al giorno. Facevo i salti di notte nel letto perché ero ossessionato da questo. In un anno l’ho portata a 7 milioni di perdita, l’anno successivo il break even, il terzo anno era in utile. Ho pulito tutto, ho pagato tutti i debiti del Leeds. Poi l’ho ceduta per poco meno di quanto l’avevo pagata. Quello inglese era un calcio, era un tavolo troppo caro per me, non avevo le finanze per poter competere. La verità è questa, avrei rischiato di farmi male».
E poi l’avventura a Brescia…
Per i fatti di Brescia, quindi, lei si sente vittima?
«Io non mi sento, io sono vittima di una serie di circostanze negative, con una Sampdoria che non deve retrocedere perché ha 200 milioni di debiti e ha garanzie con delle banche e con la Federazione, che l’ha iscritta l’anno precedente, impropriamente, al campionato. Questa è la realtà. Con un commercialista bresciano che mi vende i titoli con la quietanza dell’ufficio delle Entrate, con la supervisione federale della Covisoc. E un giorno prima dell’iscrizione mi dicono che è tutto falso e che devo tirar fuori 8 milioni in 24 ore per iscrivere la società, retrocessa in Serie C. Non ce li avevo. Se l’avessi saputo li avrei procurati, non ce li avevo. Non ho potuto iscrivere la squadra. È quello che volevano loro. Ed è quello che è successo. Se avessi avuto tre punti in più sarebbe retrocessa la Sampdoria e non il Brescia. La mia è disgrazia è stata la coda del diavolo».
Resterà nel mondo del calcio o vuole disintossicarsi?
«Il business del calcio per me è finito, specialmente in Italia. Per me non c’è più futuro. Ostinarmi a continuare… Ho pagato malamente. A me piace giocare nei tavoli dove non si bara, dove ci sono persone oneste e serie. Nel calcio italiano persone serie ne sono rimaste poche».