Mio figlio è un brocco ma ama il calcio e lo sport. In questa società ipercompetitiva non trova posto

Il Fatto quotidiano pubblica la lettera strepitosa di una madre: si parla tanto di inclusività, la realtà è differente: se non sei bravo, ti invitano a cambiare sport

pallone mio figlio è un brocco

Db Johannesburg (Sud Africa) 05/07/2010 - stock mondiali Sud Africa 2010 / foto Daniele Buffa/Image Sport nella foto: bambini giocano a calcio a Soweto

Mio figlio è un brocco ma ama il calcio e lo sport. In questa società ipercompetitiva non trova posto

Il Fatto quotidiano pubblica una lettera semplicemente strepitosa. Non è firmata, o meglio è firmata “Una mamma qualunque”. E in effetti potrebbe essere stata scritta da una mamma qualsiasi, una delle tantissime i cui figli amano giocare a calcio pur non essendo nemmeno lontanamente né Yamal né Vinicius.

Ci perdoneranno al Fatto – speriamo – ma non possiamo non riportarla integralmente. Eccola. 

SONO LA MAMMA DI UN RAGAZZO che ama giocare a calcio. Ama correre, tirare calci al pallone, ridere con i compagni, sbagliare un passaggio e riprovarci. Non ha particolari doti atletiche, non è veloce, non è preciso, non segna quasi mai. È, insomma, un “brocco”. Non è disabile, non ha nessun “certificato” che lo renda destinatario di un progetto d’inclusione. Semplicemente: non è bravo. Ma ama lo sport. E, come tanti, non trova posto da nessuna parte. Perché anche nelle società sportive non professionistiche, nelle squadre di quartiere, nei campionati delle scuole calcio o delle associazioni dilettantistiche, conta solo una cosa: vincere. E per vincere bisogna selezionare. Lasciar fuori chi non “rende”. Anche se si hanno 12, 14 o 16 anni. Anche se si gioca per il trofeo del supermercato o per la coppa della ferramenta o del piastrellista del quartiere. Nel frattempo, a margine del campo, mio figlio (e tanti come lui) viene messo in panchina o invitato “gentilmente” a cambiare sport. Magari a fare nuoto, dove è solo e nessuno si accorge che arriva sempre ultimo. Oppure, più spesso, a smettere del tutto.

Ed è qui che vorrei parlare dell’ipocrisia dell’inclusività. Viviamo in un’epoca in cui – giustamente – si promuovono campagne per l’inclusione delle persone con disabilità, delle minoranze etniche, delle categorie fragili. Spot emozionanti, post commoventi, progetti finanziati. Tutto bello. Tutto necessario. Ma… chi parla dei ragazzi mediocri? Di quelli senza medaglie, senza disabilità, senza talento? Di chi non ha un’etichetta da esibire, ma solo una voglia autentica di appartenere? Lo sport – che dovrebbe insegnare il rispetto, la collaborazione, il coraggio – è invece spesso la prima palestra della selezione, della competizione sfrenata, del culto della performance. A scuola come nella vita, chi non eccelle viene escluso. E l’esclusione, subita giorno dopo giorno, trasforma i ragazzi in adulti pieni di insicurezze, di frustrazioni, di cicatrici invisibili. Non tutti diventeranno Messi, Sinner, Bebe Vìo o Tamberi. Anzi, solo l’1% forse ci arriverà. Perché lo sport, per tutti, dura una stagione della vita. Ma ciò che resta, alla fine, è come lo si è vissuto: se come una corsa solitaria verso la vittoria, o come una strada condivisa, piena di compagni e sorrisi.

E allora perché non cambiare prospettiva? Le società sportive dovrebbero essere premiate non per quante coppe vincono o quanti “numeri 1” sfornano, ma per quanti ragazzi fanno giocare, per quanti sorrisi riescono a vedere sul volto dei propri iscritti, per quanto entusiasmo riescono a coltivare, e per quanti non lasciano per sempre lo sport. Dovrebbero essere misurati sull’impatto umano e non solo sul punteggio. Perché fare sport è prima di tutto un diritto alla salute, alla socialità, alla crescita. Ma con questa impostazione ipercompetitiva, stiamo negando l’accesso a un numero sempre più ampio di ragazzi, privandoli di un’esperienza fondamentale per il loro benessere fisico e mentale.

La ricaduta sulla salute pubblica, nel medio e lungo termine, sarà enorme. È ora di chiederci: davvero vogliamo sacrificare la salute e il benessere di tanti ragazzi per un campionato di terza categoria? La dignità, quella vera, non è dei vincenti. È di chiunque. Anche della mediocrità. Anche di chi regala entusiasmo senza prestazioni da fuoriclasse. Quei ragazzi meritano uno spazio. Non per carità. Per giustizia. Perché la vita non è una gara. È un campo da gioco dove tutti hanno diritto di scendere, anche solo per il gusto di correre dietro a un pallone.

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