Michele Spiezia: «Nel calcio il giornalismo non esiste più. Quelle domande da ciclostile non hanno senso»

Intervista al giornalista anima del sito Stori&Sport, che da sempre analizza lo sport come veicolo di potere. Nel suo ultimo libro ha raccontato l'Italia attraverso lo sport

Michele Spiezia

Michele Spiezia: «Nel calcio il giornalismo non esiste più. Quelle domande da ciclostile non hanno senso»

Trent’anni di storia italiana, ripercorsi da un cronista – definirlo sportivo appare riduttivo – che ha saputo intrecciare grandi imprese agonistiche con alcuni degli eventi più significativi e spesso drammatici dell’Italia tra il 1969 e il 1998. Michele Spiezia, giornalista salernitano per decenni in forza a La Città e oggi anima del sito Stori&Sport, ha messo in parallelo cronaca e sport, ma forse sarebbe meglio dire storia politica e sportiva, nel suo “Di oro, di fango e di piombo” (Coltura edizioni, 2024). Un libro denso, accuratamente documentato, quasi ossessivo nella ricostruzione puntuale di fatti, eventi e di come venivano riportati dai media, il volume restituisce un punto di vista inaspettato e una lettura trasversale dell’Italia uscita dal boom economico colma di ottimismo ed entrata improvvisamente in una spirale di violenze, eventi mai chiariti e opacità. Così il tramonto della grande Inter è una chiave di lettura in uno degli anni cruciali per il nostro paese, il 1969, in cui si prende atto della battuta d’arresto sociale prima ancora che economica e anticipa con la bomba del 12 dicembre scoppiata alla Banca nazionale dell’agricoltura, il decennio a venire. O, ancora, l’epopea della Valanga Azzurra che nel pieno di una crisi petrolifera, contribuisce a trasformare le botteghe artigiane di Veneto e Lombardia in industrie dello sport system. E come non citare il Mondiale vinto nel 1982 che sancisce la fine degli Anni di Piombo o, dieci anni dopo, il trionfo del Settebello alle Olimpiadi di Barcellona a restituire l’immagine di un’Italia capace di grandi imprese nonostante le ferite delle stragi di mafia.

Un libro che si presta a più letture, accanto alla storia e alla cronaca del tempo si intravede in filigrana lo stretto rapporto tra politica e sport, non sempre esplicito, come negli anni di Berlusconi che fecero grande il Milan, a volte latente, ma sempre un potere incombente si potrebbe dire.

Proprio da qui partiamo nella conversazione con Spiezia, incontrato a Belluno in occasione della seconda edizione dello Sport Business Forum dove ha presentato il suo libro.

Perché secondo te c’è tutta questa attenzione della politica verso lo sport in questi ultimi anni?

«Perché lo sport è diventato sempre più un veicolo non soltanto di immagine, non soltanto di controllo, ma anche un veicolo di consenso e anche un veicolo economico. Al di là delle contingenti disastrose situazioni che caratterizzano il calcio italiano, bisogna dire che però c’è stata una crescita esponenziale di alcune discipline sportive in Italia che hanno rilanciato anche l’immagine dell’Italia dal punto di vista internazionale, perché lo sport è immagine. Pensiamo alle Olimpiadi di Tokyo, nelle quali l’Italia addirittura vince i 100 metri, maschile vince la staffetta. Quanto successo e che immagini sono state quelle vittorie? E le vittorie delle varie nazionali e degli atleti alle Olimpiadi hanno portato a nuova immagine ma anche hanno portato a sviluppare dei processi economici importanti. E quindi lo sport non è più soltanto un veicolo di immagine ma è anche un veicolo con il quale catturare il consenso e anche un veicolo nel quale sviluppare processi economici».

Possiamo dire che il rapporto tra politica e sport è diventato perverso nel corso degli anni? O che lo sport viene strumentalizzato dalla politica? È una banalizzazione?

«No, non credo sia una banalizzazione. Credo che forse all’inizio sia stato strumentalizzato. Adesso secondo me si è andati oltre la strumentalizzazione. Adesso è diventato lo strumento di un intreccio perverso che lega la politica allo sport».

Proviamo a espandere il concetto.

«Basterebbe pensare come molti presidenti federali di lungo corso, per i quali per una precedente legge non avrebbero potuto proseguire i loro mandati, sono riusciti a mantenere la propria posizione con una parziale modifica di una legge, andando in controtendenza a quello che era stato il dettame della Corte Costituzionale. Presidenti federali che hanno costituito dei veri e propri centri di potere all’interno delle federazioni, che sono enti privati, che dipendono però e sono affiliate al Coni, che è un ente pubblico. Senza contare che le federazioni ricevono da Sport e Salute, ma non solo, anche fondi statali. Quindi in un certo senso non possono essere considerati soltanto con dei profili privatistici, ma anche pubblici. Se poi aggiungiamo che diversi presidenti di federazioni affiliate Coni sono deputati, senatori o con altre cariche politiche, comprendiamo bene come la politica abbia completamente messo le mani sullo sport».

In questo contesto, non sembra casuale la candidatura di Franco Carraro per sostituire Malagò ai vertici del Coni.

«Testimonia come le carte nello sport italiano le stiano dando soltanto i politici e non ci sia alcuna idea o visione di sviluppo. Al di là del fatto che manchino i programmi dei candidati, se ne sono presentati 8, sarebbero stati addirittura dieci se non ci fossero stati privi di i requisiti. Otto candidati, una cosa mai successa nella storia del Coni. Alcuni sono soltanto di bandiera, ma è palese che intorno alle varie figure che si sono candidate ci sia uno scontro durissimo trai partiti, all’interno degli stessi partiti e tra i consiglieri federali».

Questa situazione ha un impatto anche sui media, cioè sul racconto degli eventi? È un caso che i giornalisti sportivi non facciano più domande?

«Devo rispondere?»

Certo che devi rispondere.

«Nel calcio, diciamo che secondo me il giornalismo non esiste più. Non solo nel calcio non si fanno più domande, è stato abolito anche il momento dell’incontro”.

Sconcerti: dal giornalismo sportivo sono sparite le notizie, solo opinioni che rimbalzano sul web

Però adesso sono obbligatorie le conferenze stampa prima e dopo gli incontri, si raccolgono le battute dei calciatori tra il primo e il secondo tempo…

«Perché quelli fanno parte degli accordi televisivi per i quali le società di calcio prendono i soldi. E se un calciatore non si presenta a quell’intervista, quel club viene multato. Al di là, e non voglio entrare ovviamente nel merito del contenuto delle domande, ma sono cose stereotipate, in ciclostile. Sono delle sorte specie di filastrocche imparate a memoria. Prima i calciatori, anni fa, i giornalisti li incontravano liberamente come incontravano l’allenatore o un presidente. Adesso addirittura le stesse società costruiscono qualche volta le interviste. Se le cucina lo stesso ufficio stampa del club e poi lo dà alle varie televisioni. Che quindi sono diventate soltanto un veicolo di trasmissione di un pensiero che non parte dalle proprie domande, dalle proprie stanze, dalle proprie curiosità. Ma si limita a recepire ciò che quella società o quel calciatore o quel presidente vuole dare».

Possiamo dire che non ha nulla a che vedere con il giornalismo.

«Esatto, senza voler offendere la suscettibilità di qualcuno, secondo me sì. Se facessimo un sondaggio tra i lettori o gli ascoltatori della televisione dotati di buon senso normale, credo che dieci su dieci direbbero che non ha alcun senso ascoltare e sentire o leggere una domanda e la conseguente risposta».

Parliamo del tuo libro. Tu hai abbinato nel libro dei fatti cruciali per l’Italia a degli eventi sportivi. Come ti sono venuti questi collegamenti?

«L’avvenimento sportivo in sé, in alcuni capitoli, è la parte iniziale, come se desse lo spunto a un racconto. Che è un racconto di trent’anni di storia italiana, che va dal 69 al 98. Secondo me trent’anni cruciali per l’Italia. Anni tragici, terribili dal punto di vista politico, economico, sociale, caratterizzati da tante vicende oscure e ancora non chiarite. Quindi è un libro che secondo me parla del passato, ma terribilmente attuale perché alcune delle vicende di cui tratto sono ancora tragicamente aperte. Insieme a degli avvenimenti sportivi che sono strettamente e intimamente legati anche a quegli avvenimenti, anche a quegli intrecci.

Perché sei partito dal 1969?

Perché è l’anno in cui l’Italia esce dal boom economico e in quegli anni assistiamo a una trasformazione dello sport italiano. Non c’è più soltanto il calcio. Ad esempio nel 1974 mi occupo della valanga azzurra di sci. Che poi quel grande storico successo di Bertelsgander, che cos’è? È un grande veicolo promozionale per l’Italia, ma diventerà anche un processo economico irreversibile verso lo sviluppo perché tante aziende italiane si daranno alla produzione di attrezzature dello sci. Nascerranno le settimane bianche, gli alberghi. Nasce lo sport system tra le province di Treviso e Belluno. Che prima non esisteva. Prima lo sci era uno sport elitario, invece diventa uno sport di massa.

Un capitolo è dedicato al racconto dell’impresa di Azzurra, in una disciplina, la vela, di cui molti nemmeno erano a conoscenza nella primavera del 1983.

«Azzurra è un’avventura quasi dilettantistica, nella quale insieme a Cino Ricci e a Pelaschier su quella barca ci va l’ex ferrovieri surfista con la passione per la vela. Ma viene sostenuta per un sogno di Agnelli e dell’Aga Khan da un consorzio di aziende italiane che sosterranno quella prima spedizione, e che avranno modo anche di farsi conoscere all’estero. Così come era capitato nel 1982 con la vittoria dell’Italia nel calcio, che è una sorta di spartiacque tra l’Italia tragica degli anni ’70 e ’80 e l’immagine che dà all’estero. L’Italia del 1982 che contro tutti i pronostici vince i campionati del mondo stimola le sponsorizzazioni e molte aziende ne vedono un veicolo formidabile per farsi conoscere fuori dai confini nazionali. Quindi lo sport, quello molto nostalgico degli anni ’70 e ’80, è stato il seme di uno sviluppo dello sport attuale».

È lì, negli anni ’80, che si trasforma lo sport secondo te, che diventa prima veicolo di business, poi veicolo in consenso, infine strumento della politica?

«Secondo me sì, nel senso che il 1980, tra il ’78 e l’80, io considero sono i tre anni, ma soprattutto il 1980 l’anno cerniera per l’Italia, perché chiude in un certo senso gli avvenimenti tragici degli anni ’70 caratterizzati dal terrorismo, dai gruppi di neofascisti, dagli attentati e quant’altro. È come se fosse il lasciapassare per un altro tipo d’Italia che, messasi alle spalle quelle tensioni, come se liberasse nuove energie per dare uno sviluppo, diciamo anche non soltanto del tempo libero ma delle altre attività. E quindi anche lo sport ne guadagna, perché accanto agli iniziali positivi risultati, secondo me partiti dalla vittoria del Mondiale di calcio, si allargano a molte altre discipline. Lo vediamo ad esempio nel 1983 con una serie incredibile di vittorie in tutte le discipline sportive degli atleti italiani, comincia ad affermarsi un nuovo modo di sport italiano».

Anche gli atleti iniziano a perdere quella figura di dilettantismo e iniziano ad assumerne un’altra. C’è una sorta di industrializzazione del settore sportivo.

«Esatto, e noi assistiamo adesso, bisogna riconoscerlo, come ad esempio l’Italia fino alle porte del 2000 nel nuoto non aveva mai vinto nulla e nel 2000 con le prime medaglie d’oro di Fioravanti e Rosolino a Sydney, sono anche quelli uno spartiacque, segnano un totale cambiamento perché l’Italia è diventata una potenza nel nuoto mondiale, cosa fino allora inaspettata». Discorso simile vale per la pallavolo considerato per molto tempo uno sport minore e «che invece prima con i maschi e poi addirittura con le donne è riuscita ad arrivare alla medaglia d’oro a Parigi. E quindi ha spostato anche un po’ gli equilibri».

Quindi se da un lato c’è una politica soffocante, dall’altro troviamo esempi virtuosi. Prendiamo il tennis, due italiani nei primi dieci in classifica Atp, nove nei primi cento. La federazione ha lavorato bene.

«Funziona anche l’effetto di trascinamento. Nel senso che, faccio un esempio: se un ragazzino di 7-8 anni assiste alla vittoria di Jacobs nei 100 metri e magari in quel momento pensa di fare il calciatore, ma magari viene rapito da quel gesto, decide di voler fare atletica. L’atletica italiana negli anni 80 era un’atletica importante, fatta però da personaggi puramente dilettantistici che tuttavia ottenevano grandi risultati. Poi l’atletica italiana è praticamente morta per un lungo periodo di tempo. Poi alle volte basta anche un colpo di fortuna, ma con un effetto di trascinamento esponenziale. A Tokyo l’Italia ha vinto 5 medaglie d’oro in atletica. Quante non ne aveva vinte nelle precedenti 4 Olimpiadi. E così anche nel nuoto».

Dici che si tratti di casualità?

«No, no. È ovvio che le federazioni in un certo senso hanno dei meriti, ma io ascriverei soprattutto i meriti agli allenatori, quelli che sono capaci di allenare, di produrre nuove leve. I bravi presidenti federali secondo me sono quelli che non intervengono direttamente e internamente in dinamiche che sono prettamente sportive, tecniche. Spesso invece si assiste a nomine o a licenziamenti di allenatori e di quant’altro per ragioni che non sono sportive. Nel calcio, ce ne siamo accorti in questi giorni sulla nazionale, è un po’ così».

Certo la Nazionale sta vivendo un periodo abbastanza buio. È mancanza di talenti o ci sono falle nell’organizzazione?

«Ora senza volerne fare una questione personale, quindi legata alle persone, vediamo un po’ di fatti. Nel settore tecnico di Coverciano l’Italia ha avuto sempre grandi allenatori, una scuola di allenatori incredibile. Da tempo chi dirige la scuola degli allenatori a Coverciano è Renzo Ulivieri che ormai ha superato gli 80 anni. Nel settore tecnico per anni c’è stato Albertini, quali sono i risultati che ha ottenuto il settore tecnico? E in base a quali logiche, al di là di quelle sportive e meritorie Albertini è stato prima nominato e poi congedato? E perché al momento la Federazione ancora non ha nominato un responsabile del settore tecnico? Mi si dirà è una nomina, non è sostanza. E invece è da questi particolari, si direbbe che si vede una federazione».

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