Domenghini: «Da adolescente dormivo nelle stalle, all’Atalanta giocavo e lavoravo in fabbrica»
Alla Gazzetta: «All’Atalanta prendevo un milione all’anno, con l'Inter ho firmato un contratto in bianco e Moratti scrive: quindici. Sono arrivato con la Fiat 600».

Screenshot da Youtube
Angelo Domenghini, uno dei protagonisti della “Grande Inter”, intervistato dalla Gazzetta dello Sport per raccontare la sua carriera da calciatore.
Domenghini: «Da adolescente dormivo nelle stalle, all’Atalanta giocavo e lavoravo in fabbrica»
Cominciamo con la Beneamata [termine coniato da Brera per l’Inter, ndr]…
«La mia fortuna, mi ha cambiato la vita. Non avevo niente, ho vinto e avuto tutto. Ero povero, sono salito in cima del mondo».
Suo padre aveva un’osteria a Lallio e lei era un ribelle. È così?
«Certo. Un’osteria con il pergolato e il campo da bocce. Eravamo in 9 fratelli, 6 femmine e 3 maschi. Il più grande era l’unico ad avere la bicicletta, una Coppi, ma io non potevo toccarla. Un giorno l’ ha venduta e ha acquistato un pianoforte; non aveva la passione della musica, non l’ho mai sentito un giorno suonare quel piano. A tredici, quattordici anni ero uno senza legge. Dormivo nelle stalle, fumavo le pagine dei giornali vecchi, andavo a prendere le uova nei nidi delle rondini sui cornicioni della chiesa. Rubavo la frutta ai contadini e quelli mi inseguivano fino a casa, all’osteria, e urlavano a mio padre: “Tuo figlio è un delinquente!”. E io scappavo, correvo e correvo».
E di corsa è arrivato all’Atalanta. Come?
«Vicino all’oratorio della chiesa c’era un campetto, giocavo lì. Poi arrivavano i più grandi, quelli che lavoravano e ci mandavano via. Poi una sera sono andato a fare un torneo a sette a Verdello e un prete mi disse: “Tu vieni a giocare con noi in prima divisione”. L’allenatore era il dottor Brolis, lavorava alla Dalmine. Sono diventato giocatore senza fare il settore giovanile, senza imparare nulla. Centravanti, poi mezzala sinistra, poi destra. Il dottor Brolis mi ha venduto all’Atalanta per 200 mila lire, a me non davano niente. Solo le spese della corriera. Al mattino lavoravo in fabbrica, al pomeriggio mi allenavo. Volevo diventare giocatore professionista e non capivo. Pensavo: se mi fanno lavorare, vuol dire che non sono un vero calciatore. Un giorno il direttore della Magrini chiama un dirigente dell’Atalanta: “Che cosa facciamo con questo ragazzo? O lavora tutta la giornata o ve lo tenete a giocare”. Mi hanno tenuto».
Poi l’Inter, Angelo Moratti, il Mago:
«Mi hanno chiamato e sono andato. All’Atalanta prendevo un milione all’anno, firmo un contratto in bianco e Moratti scrive: quindici. Arrivo a Milano con la Fiat 600, mi compro subito l’Alfa, il Duetto spider, una figata».
Andava d’accordo con il Mago Helenio?
«Beh, insomma, non era facile. Io avevo il mio carattere e lui il suo. Il Mago era tosto, erano tutti tosti, parliamo della Grande Inter».
Domenghini in campo puntava l’uomo:
«Lo facevo in modo largo e poi segnavo. Ma i giornalisti parlavano sempre di Mazzola, Suarez Corso. E poi Corso, Suarez, Mazzola. Giusto, erano bravi, erano le stelle. Ma anch’io facevo qualcosa».
Con il Celtic a Lisbona nel 1967, è andata male:
«Tremendo. Nei quarti abbiamo battuto due volte il Real Madrid. Col Celtic siamo andati in vantaggio con un rigore di Mazzola. Ma eravamo stanchi, anche per il campionato. Sarti aveva parato l’impossibile, loro hanno segnato il gol della vittoria a pochi minuti dalla fine. Poi la caduta di Mantova e lo scudetto sfumato all’ultima giornata: stagione balorda, abbiamo perso tutto. Una sconfitta clamorosa, quel giorno è finita la Grande Inter».