Brunetta e l’Heysel: «Negli ospedali di Bruxelles con De Michelis. Teste fasciate, occhi persi, corpi senza scarpe»
Al Corriere della Sera. «Li ricordo come se fosse ora. Li portammo in Italia con un aereo militare. Non ho mai più visto una partita di calcio»

Belgian police officials, medical personnel and supporters stand in debris after clashes between supporters ahead of The European Cup football final match between Juventus and Liverpool at Heysel Stadium in Brussels on May 29, 1985. The 40th anniversary of the Heysel Stadium disaster in which 39 football supporters died and some 600 were injured after a wall collapsed at the stadium in the Belgian capital is on May 29, 2025. (Photo by Dominique FAGET / AFP)
Brunetta e l’Heysel: «Ero a Bruxelles, De Michelis tornò dallo stadio stravolto, andammo negli ospedali»
29 maggio 1985. Sono passati quarant’anni dalla tragica notte dell’Heysel. Finale di Coppa dei Campioni tra Juventus e Liverpool. Morirono 39 persone (32 italiani). A Bruxelles c’era Renato Brunetta, a lungo ministro, oggi presidente del Nel. All’epoca consigliere economico del ministro Gianni De Michelis. Lo intervista il Corriere della Sera a firma Giovanni Viafora.
Brunetta, che non è tifoso, non segue particolarmente il calcio, racconta quella sera. Avrebbe dovuto raggiungere De Michelis allo stadio nel secondo tempo.
«Salgo in taxi, la radio trasmette notizie confuse. Vedo gente che corre per strada. Il tassista suggerisce di lasciar perdere. Mi convinco: tanto la partita stava finendo. Ero affamato, andai al ristorante. Dovevamo trovarci tutti lì dopo il match. Una tavolata prenotata in un locale elegante del centro, dovevano esserci nomi importanti: Kissinger, Agnelli, diplomatici, giornalisti. Nessuno però arrivava. Io, nell’attesa, divorai tutti i grissini, da solo».
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Quando ha capito che non era un semplice ritardo?
«Alle 23.30, poi mezzanotte, ancora niente. Torno in albergo, chiedo al portiere com’è finita la partita. E lui: “Ma si vergogni, con quello che è successo!”. Lì capii. Rimasi pietrificato. Era tutto il giorno che non toccavo cibo, che non dormivo. In quel momento ho sentito la fatica più grande: quella della coscienza che si sveglia bruscamente».
E De Michelis?
«Nessuna notizia. Provo a chiamarlo, nulla. Provo l’ambasciata, nulla. Temo il peggio. Era l’epoca in cui non esistevano i cellulari. Verso le tre, tre e mezza, finalmente mi chiama. Anche lui era in ansia: pensava che fossi io il disperso. Ci abbracciammo nella hall dell’albergo. Era stravolto, aveva gli occhi lucidi e il tono rotto».
Che cosa le raccontò?
«Che aveva visto tutto. Che si era trovato in mezzo a scene da incubo. Mi disse che a un certo punto, vedendo la polizia belga paralizzata, aveva tentato di dare ordini, indicazioni. Di aiutare. Ma un ufficiale lo minacciò: “O sta zitto o Allora si qualificò. Era Gianni: deciso, intelligente, pronto all’azione. Non ho dubbi che così salvò delle vite. Molti tornarono a casa anche grazie a lui».
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Come furono le ore dopo?
«Durissime. Ci svegliammo all’alba. Gianni organizzò subito un giro negli ospedali. Voleva vedere i feriti italiani, portare conforto. Li ricordo come fosse ora: teste fasciate, occhi persi, corpi senza scarpe. La calca aveva strappato tutto. Alcuni ci guardarono con riconoscenza, altri con dolore muto. Poi Gianni ebbe un’idea illuminante».
Quale?
«Eravamo arrivati a Bruxelles con un aereo militare, che ci aspettava per il rientro. Disse: usiamolo per riportare a casa i feriti che possono viaggiare. Tanto noi eravamo in tre. Fu tutto organizzato in poche ore. Arrivarono ambulanze, auto. Aiutammo a farli salire. Alcuni piangevano, altri sorridevano. Era commovente. Lo staff di bordo fu eccezionale».
Quante persone riusciste a riportare in Italia?
«Settanta, forse ottanta. Tutti con garze sulla testa, pattine da aereo ai piedi, occhi lucidi. Sembrava un pellegrinaggio, non un volo. A bordo distribuivo caramelle e parole di conforto. Atterrammo in sequenza a Milano, Torino, Genova, Firenze, Roma. Credo anche Napoli. A ogni scalo, c’erano famiglie ad aspettare».
Ha più rivisto una partita?
«No, mai».